Associazione a delinquere virtuale?

Associazione a delinquere virtuale?

Questa possibilità è in astratto ammessa, in particolare con riferimento alla diffusione di immagini pedo-pornografiche. Ma una recente sentenza del Tribunale di Roma fa discutere. Il commento di G. Costabile
Questa possibilità è in astratto ammessa, in particolare con riferimento alla diffusione di immagini pedo-pornografiche. Ma una recente sentenza del Tribunale di Roma fa discutere. Il commento di G. Costabile


Roma – Esiste la possibilità che un collegamento stabile ancorché virtuale, via Internet, tra diverse persone e finalizzato alla messa in atto di un reato rappresenti una associazione a delinquere virtuale . Una recente sentenza del Tribunale di Roma ammette questa possibilità, ma la nega nel caso specifico che ha dovuto affrontare. Sulla questione pubblichiamo il commento giuridico di Gerardo Costabile, membro IACIS ed esperto di diritto nell’era digitale

Associazione a delinquere “virtuale”: occasione mancata al Tribunale di Roma

Il Tribunale di Roma, IX Sezione in composizione collegiale, con Sentenza n. 1872 del 21 settembre 2005, ha ritenuto non configurabile -nel caso di specie accertato nel 1997- il reato di associazione a delinquere ex art. 416 c.p. “virtuale”, seppure in astratto plausibile anche nell’ambito di una comunità quale quella di Internet. Nel caso in esame a Roma, infatti, non era stata dimostrata, da parte dell’accusa, la presenza di un’organizzazione stabilmente dedita alla commercializzazione ed alla distribuzione di immagini pedopornografiche, oltre che la volontà – degli aderenti al consortium sceleris – di partecipare alle attività de quibus .

Facendo un passo indietro, dalla lettura della norma si evince che “quando tre o più persone si associano allo scopo di commettere più delitti, coloro che promuovono o costituiscono od organizzano l’associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da tre a sette anni ” (art. 416, comma I, del Codice Penale).

Nel caso di specie, quindi, il Tribunale di Roma ha precisato che “pur essendo emerso un collegamento stabile tra due indagati, non risulta sufficientemente provata la compartecipazione tra gli altri imputati ad un programma delittuoso continuativo, né sotto tale profilo può porsi a fondamento dell’affermazione della responsabilità penale la ricorrenza di alcuni indirizzi di posta elettronica, spesso non riconducibili a persone fisiche determinate per obiettive difficoltà di indagine, che è al più significativa, nel dubbio, della contiguità di tali persone con strumenti che consentono l’agevole circolazione di immagini oscene”.

In passato, di contro, la Cassazione aveva già evidenziato che un soggetto “può anche non avere la conoscenza dei capi o degli altri affiliati essendo sufficiente che, anche in modo non rituale, di fatto si inserisca nel gruppo per realizzarne gli scopi, con la consapevolezza che il risultato viene perseguito con l’utilizzazione di metodi comuni”. ( Cfr. Cass. Sez. II, sent. 28.5.1997, n. 4976, rv. 207845). In altri contesti, di nuovo, la Cassazione dichiarava che “integrano la condotta di partecipazione all’associazione per delinquere la fornitura di mezzi materiali ai membri di detta associazione e l’attività di trasmissione dei messaggi scritti tra membri della medesima, in quanto esse ineriscono al funzionamento dell’organismo criminale sia sotto il profilo della disponibilità di risorse materiali utilizzabili per l’attività di questo, sia sotto quello del mantenimento di canali informativi tra i suoi membri, che è incombenza di primaria importanza per il funzionamento dell’associazione per delinquere”. (Cass. Sez. I, sent. 6.8.1996, n. 4375, rv. 205497).

In questo scenario giurisprudenziale, invece, il Tribunale di Roma non ha ritenuto possibile acclarare un vincolo associativo “virtuale” tra 2 soggetti compiutamente identificati con altri “non reali”, in quanto riconducibili “solo” ad indirizzi di posta elettronica e non a persone in carne ed ossa, per asserite problematiche di identificazione degli utenti delle citate caselle.

Fondamento importante, comunque, appare la porta che il Tribunale di Roma apre alla possibilità di addivenire alla configurazione del reato associativo per condotte “virtuali”, laddove invece fosse stato possibile esperire l’identificazione certa degli utilizzatori di tali strumenti telematici di comunicazione.

Più in generale, in particolare per taluni reati informatici quali l’accesso abusivo et similia , l’esperienza investigativa ha rivelato che ad operare sono spesso più soggetti, realisticamente coscienti del loro operato, posto in essere in aperta violazione delle normative penali vigenti, e intenzionati a non desistere dalla propria attività criminale, ma anzi propensi ad intensificare la “potenza di fuoco” in un gruppo più o meno numeroso, in contatto in chat e condividendo i “grimaldelli informatici” oltre che gli indirizzi dei target appetibili e vulnerabili.

Per questo motivo, appare importante, anche con l’ausilio delle indagini tecniche, registrare la costituzione di questi gruppi di persone, determinare il loro accordo di volontà, la predisposizione dei mezzi concretamente idonei e fattivamente orientati alla commissione dei delitti, disegnando la struttura organizzativa, adeguata e funzionante con specifica distinzione di compiti, obiettivi predeterminati e moventi comuni ben precisi.

Nel determinare tale fattispecie di reato, quindi, parrebbe necessario dimostrare che le persone sotto indagine operino:

– tra loro legate con vincolo associativo tendenzialmente permanente e comunque stabile nella sua portata criminogena;
– accomunate da un fine criminoso condiviso, articolato su un programma criminoso indeterminato;
– con una struttura organizzativa chiaramente adeguata alla realizzazione degli obiettivi presi di mira;

– con procedure di reclutamento e di reperimento di nuovi componenti e prassi di affiliazione documentate nel corso delle indagini;
– avvalendosi di predisposizione di mezzi idonei alla realizzazione del programma di delinquenza.

Tutto questo è frutto di una complessa ed articolata attività investigativa, spesso transnazionale, non sempre accompagnata da un giusto contesto giuridico e tecnico che consentirebbe di cristallizzare tutte le prove con adeguatezza e completezza.
Nel caso romano, concludendo, il punto debole investigativo appare tendenzialmente proprio la difficoltà all’identificazione di un terzo soggetto, che avrebbe consentito una più serena valutazione degli ulteriori soggetti esclusivamente “virtuali”, eventualmente eccedenti rispetto al numero minimo previsto dalla norma incriminatrice.

Il Tribunale di Roma ha ricordato ai cybercop una cosa importantissima, ovvero di non perdere mai la dimensione del “reale” nelle indagini informatiche. Infatti, la vera parte “attiva” dell’azione criminale rimane sempre l’uomo, che usa la macchina, la casella di posta elettronica, un nick ed altro ancora, riportando sul pianeta terra tutto quello che succede nel “metaterritorio” (o pseudotale) dell’internet.

Gerardo Costabile, CIFI
Iacis Member – www.costabile.net

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Pubblicato il
29 nov 2005
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