Untrusted/ TC, DRM scelta inevitabile?

Untrusted/ TC, DRM scelta inevitabile?

di Alessandro Bottoni - Chi sostiene il trusted computing afferma che il DRM è solo una delle possibili applicazioni del PC blindato. In realtà è l'unica davvero innovativa. Ma non c'erano proprio altre soluzioni?
di Alessandro Bottoni - Chi sostiene il trusted computing afferma che il DRM è solo una delle possibili applicazioni del PC blindato. In realtà è l'unica davvero innovativa. Ma non c'erano proprio altre soluzioni?

Roma – Diciamolo: il TC serve soprattutto a proteggere il software ed i file di dati multimediali dalla copia abusiva (e anche da alcune forme di consumo non gradite ai produttori). Anche se diversi portavoce del mondo del Trusted Computing, come David Safford di IBM e lo staff di documentazione web di di Microsoft, si oppongono a questa interpretazione, rimane il fatto che la creazione di sistemi DRM di seconda generazione è praticamente l’unica applicazione in cui il Trusted Computing mostri di avere delle caratteristiche veramente innovative e che non possono essere ottenute in altro modo.

Ma c’è veramente bisogno di proteggere il software ed i contenuti multimediali in modo così drastico? Non si può trovare un altro modo di affrontare il problema della copia abusiva?

Quasi certamente, si possono trovare delle alternative . Il Trusted Computing ed i sistemi DRM sono la conseguenza inevitabile di un Business Model (“Strategia Aziendale”) e di un Distribution Model (“Schema di Distribuzione”) che forse hanno già fatto il loro tempo e che devono essere sostituiti da qualcosa di più adatto al terzo millennio. Alcune alternative a questi modelli di business sono già state proposte e, in alcuni casi, sono già state sperimentate. Addirittura, alcune di esse si sono già dimostrate in grado di sostenere l’economia delle aziende che le hanno provate.

Per comprendere fino in fondo il senso di queste proposte, bisogna tenere presente quale è stata l’evoluzione dell’industria editoriale negli ultimi 50 anni. Sin dai tempi di Gutenberg, l’editore ha svolto un ruolo indispensabile per il consumatore e per l’intera società. Grazie al suo lavoro e ai suoi soldi , le opere degli artisti sono state scoperte, selezionate, messe a punto, prodotte, stampate in milioni di copie e distribuite capillarmente sul territorio nazionale o persino sull’intero pianeta. Non c’è quindi da stupirsi se per alcuni secoli il consumatore, e l’intera società, hanno trovato giusto pagare per questo servizio.

Da qualche decennio a questa parte, tuttavia, il ruolo sociale e commerciale dell’editore si è sempre più ristretto. La selezione delle opere “meritevoli” è sempre più affidata a specialisti di settore che sono spesso pagati dagli stessi autori, come lo studio Grandi e Associati , a concorsi di vario tipo o persino all’opera di scouting messa in atto in modo volontario dalle comunità Internet.

In molti casi, la produzione dell’opera viene curata direttamente dall’autore, come avviene per il software, per i testi in formato PDF, per la musica in formato digitale e persino per alcune opere cinematografiche (chi non ricorda The Blair Witch Project ?). Grazie ad Internet, infine, la distribuzione può essere realizzata a livello capillare e sull’intero pianeta a costi praticamente nulli. In altri termini, l’editore tradizionale ha abdicato a una parte importante dei suoi ruoli sociali ed è stato escluso da altri, trasformandosi spesso in un semplice esattore di diritti.

A questo punto è chiaro che le aziende che operano nel settore editoriale, dell’entertainement, del software e del recording devono cambiare radicalmente il loro approccio al mercato se vogliono sopravvivere a questo cambiamento. Come debbano cambiare è ancora materia di discussione ma è certo che lo debbano fare. Diversamente, il “consumatore”, ricordandosi improvvisamente del suo ruolo di giudice ultimo del mercato , si rifiuterà di pagare per un servizio inesistente e ricorrerà alla copia abusiva per bypassarli.

Qui di seguito trovate qualche esempio delle proposte che sono state avanzate negli ultimi anni per aggiornare il modello di business delle aziende di questo settore e renderlo nuovamente compatibile con le società in cui vivono. Si tratta solo di una piccola raccolta di esempi che non esaurisce certo la complessità della materia. Tuttavia, c’è sicuramente materiale sufficiente per far riflettere. Il software come servizio di Rete
Il modo più ovvio, ed il più drastico, di superare il problema della copia abusiva nel caso del software è quello di non distribuirlo affatto. Questo vuol dire che il software non deve mai uscire dal computer sul quale risiede (di solito un server di rete) e sul quale viene sottoposto a manutenzione e sviluppo. Di conseguenza, il software non può più essere “venduto” o “ceduto in licenza d’uso” ma deve essere fornito all’utente sotto forma di “servizio di rete”.

Questo modello di business è stato tentato da molte aziende nel corso degli anni, molte delle quali hanno miseramente fallito a causa della scarsa larghezza di banda che era disponibile al loro tempo su Internet. Uno dei casi più famosi è stato certamente quello di Desktop.com , una azienda che intendeva fornire agli utenti un completo ambiente desktop, del tutto equivalente a MS Windows + MS Office, sotto forma di applicazioni DHTML fruibili a pagamento in rete grazie ad un normale browser web.
L’esperimento di Desktop.com è fallito nel 2000, proprio a causa dello scarso numero di utenti che a quel tempo erano in grado di sfruttare un simile servizio attraverso una linea ADSL. Da allora le cose sono radicalmente cambiate ed oggi diverse altre aziende stanno tentando di mettere in atto lo stesso modello di business, come ad esempio https://www.youos.com/ e http://www2.goowy.com/ .

In realtà, questo modello di business viene sfruttato con successo da anni da molte aziende legate al mondo dei search engines e dei “portali”, come Google ( qui e qui ), Yahoo! ( qui e qui ) e, in misura minore, Virgilio . Tutte queste aziende forniscono, sotto forma di servizi di rete, grandi quantità di software che altre aziende un tempo avrebbero probabilmente venduto in versione “shrink-wrapped” sugli scaffali dei negozi. I casi più esemplari di questa evoluzione del software verso la forma commerciale del servizio di rete sono i due servizi di traduzione Babylon e BabelFish .

Il software come base per una azienda di Servizi
Un approccio molto diverso da questo, e sicuramente più innovativo, è quello adottato da quasi tutte le aziende del mondo FLOSS (Free and/or Libre Open Source Software): usare il software come base tecnologica per dare vita ad una società di servizi informatici (sviluppo software, amministrazione di sistemi e di reti, consulenza etc.). Questo è il modo in cui vivono, da sempre, aziende del calibro di Red Hat, Mandriva, SuSe e MySQL Gmbh.

Molte di queste aziende sono sul mercato da decenni, alcune sin dagli albori del movimento FLOSS, come Cygnus Solutions . Alcune di queste aziende hanno raggiunto negli anni dimensioni di tutto rispetto. Red Hat, ad esempio, fattura circa 150 milioni di euro l’anno e conta circa 1300 dipendenti (vedi qui ). Nonostante la sua apparente fragilità, questo modello di business ha quindi mostrato di saper reggere i fortunali del mercato digitale molto più di altri.

Si noti che in questo modello di business, software del valore di milioni di euro viene regalato e reso disponibile anche ai concorrenti . Nonostante questo, non soltanto tale modello di business non sta scomparendo dal mercato ma conquista addirittura sempre nuovi adepti. Aziende del calibro di IBM, Sun Microsystems e Novell investono milioni di euro l’anno in progetti FLOSS. Solo un ingenuo potrebbe pensare che lo facciano senza un adeguato ritorno economico.

Il software come vettore pubblicitario
Un modo piuttosto originale di produrre delle “revenue” è quello di considerare l’interfaccia utente dei programmi come un “programma televisivo” da usare come vettore per degli annunci pubblicitari. Nonostante la pessima (e meritatissima) fama dei programmi AdWare (da “advertisement-ware”, cioè “software per la pubblicità”), sono ormai parecchi i programmi che producono ritorni economici in questo modo.
Il primo programma di una certa fama a tentare questa strada è stato, alcuni anni fa, il browser web “Opera” ( qui e qui ). Da qualche tempo a questa parte, anche il lettore PDF di Adobe, Acrobat Reader , sfrutta questa possibilità.

Questa soluzione avvicina il software sempre di più al mondo dell’entertainement e della televisione e questo fa storcere il naso a molti vecchi lupi di mare del mondo digitale. Nonostante questo, l’uso del software come vettore pubblicitario sembra in grado di risolvere i problemi di sopravvivenza di molti progetti grandi e piccoli. Non ci sarebbe da stupirsi più di tanto se diventasse una soluzione molto comune in futuro. Il contenuto multimediale come vettore pubblicitario
L’uso del prodotto digitale come vettore pubblicitario è anche la forma più ovvia di finanziamento per chi crea “contenuti multimediali”. In effetti, non c’è nessuna ragione per cui un brano musicale scaricato da iTunes o un film scaricato da BitTorrent non possano essere accompagnati da annunci pubblicitari che ne coprano le spese di creazione e di distribuzione. Questo modello incontra una certa resistenza da parte degli utenti ed esiste sicuramente la tentazione di bypassare o rimuovere gli annunci pubblicitari con strumenti digitali. Questa però potrebbe essere solo una conseguenza di un modo troppo invadente e sgradevole di fare pubblicità.

Non c’è motivo di pensare, ad esempio, che chi ascolta brani musicali sul PC non sia disposto a permettere al suo player di visualizzare annunci pubblicitari solo visivi durante l’ascolto (al posto dei ghirigori psichedelici di MS Windows Media Player, per intenderci). Nello stesso modo, lo spettatore cinematografico “digitale” forse non avrebbe motivo di irritarsi se la barra che si trova alla base del suo visualizzatore mostrasse annunci pubblicitari durante la visione, nella misura in cui questo avviene in silenzio e senza sovrapporsi all’immagine principale , come avviene da tempo per il “ticker” usato dal TG2 ad esempio. Anche una breve interruzione pubblicitaria tra primo e secondo tempo potrebbe essere accettata senza grossi problemi.

Più che costringere l’utente a vedere la pubblicità, come tenta di fare un recente brevetto Philips , si tratta forse di imparare a rispettarlo. Dopotutto, lo “spettatore” è una persona prima di essere un consumatore .

L’autoproduzione letteraria, musicale e cinematografica
Per quanto possa sembrare strano, per la maggior parte degli autori di libri, musica e persino film, la principale ragione di perdite economiche non è la pirateria ma piuttosto l’avidità di chi li rappresenta sul mercato. Quando interviene il pirata, molto spesso l’autore è già stato derubato . Dal suo editore.

Le denunce in questo senso si moltiplicano senza sosta. Diversi autori ne hanno parlato in passato sui loro siti web, come ad esempio Cory Doctorow . Di recente una coalizione di artisti canadesi ha preso una posizione molto dura nei confronti di RIAA ed MPAA, citando anche questo tipo di argomentazioni, come riportato da Punto Informatico (vedi qui e qui ). Negli anni scorsi, una memorabile puntata di Report su RAI3 aveva messo in luce i meccanismi poco trasparenti ed i soprusi che dominano la ripartizione degli utili raccolti dalla SIAE per conto degli artisti. In generale, gli autori di praticamente tutte le arti denunciano spesso di essere sopraffatti dall’enorme potere contrattuale delle aziende del settore e sottoposti ad una sistematica azione di sfruttamento.

In breve, per molti artisti il modo migliore di proteggere i propri interessi non è quello di combattere la pirateria, magari attraverso diavolerie tecnologiche come i sistemi DRM od il TC, ma piuttosto quello di liberarsi di questi intermediari, a partire dagli editori e dai distributori. Non è un caso, infatti, che il fenomeno della autoproduzione si stia allargando a macchia d’olio, anche grazie ad Internet. I musicisti emergenti preferiscono spesso rischiare la copia e la distribuzione abusiva di qualche loro brano piuttosto che ricorrere agli esosi servizi offerti dagli editori e dai distributori di professione. Per questo motivo sono nati molti siti di autopromozione musicale, come Epitonic . Lo stesso è successo per il mondo della letteratura e qualcosa di simile sta succedendo persino nel settore cinematografico.

Questo fenomeno, più di qualunque altra argomentazione, rende evidente come l’esigenza di proteggere i prodotti multimediali dalla copia abusiva non sia più un problema degli autori ma piuttosto di chi ne sfrutta il lavoro. Più che di sistemi di gestione del diritto d’autore , sarebbe meglio parlare di sistemi per la protezione dei privilegi degli intermediari . Come abbiamo già detto, questi privilegi sono ormai del tutto obsoleti e non rappresentano più la giusta contropartita per il prezioso ruolo sociale che un tempo era svolto dall’editore. Sono ormai soltanto degli odiosi balzelli che l’utente finale e l’autore sono costretti a pagare a chi ha conquistato una posizione dominante nel meccanismo della produzione e della distribuzione. Questo è il vero motivo per cui questi privilegi devono essere difesi a spada tratta, anche con strumenti tecnologici. Se ci fosse una ragione sensata per pagare, la gente pagherebbe. Il Modello “Free4Free, Pay4Sell”
Da quando sono apparse le licenze Creative Commons ( qui e qui ), molti autori hanno “scoperto” un modo più semplice e più “simpatico” di diffondere le proprie opere. Sostanzialmente, il messaggio di molte di queste licenze è il seguente. “Puoi fare tutto quello che vuoi di questo mio prodotto nella misura in cui non lo adoperi per fare soldi. Se ricavi del denaro da questo mio prodotto, me ne devi dare una parte.”

Questo modello focalizza l’attenzione del titolare dei diritti sugli usi commerciali dei suoi prodotti e rende l’utente privato libero di usarli gratuitamente, nella misura in cui non tenta di utilizzarli per fare business. In altri termini, l’autore si preoccupa solo di vendere a chi vuole vendere e lascia in pace il consumatore finale.

Può sembrare un modo folle di gestire i propri diritti d’autore ma non è affatto detto che debba essere così. Molti musicisti, molti registi e molti scrittori non ricavano la maggior parte dei loro introiti dalla vendita del loro prodotto al consumatore quanto invece dalla vendita di questo prodotto alle aziende dell’entertainement (radio e TV) e da altri usi “ancillari” (uso come jingle nella pubblicità, uso come colonna sonora nel cinema, strumento di promozione professionale etc.).

Questo avviene in modo particolare all’inizio della loro carriera artistica, quando il vero problema è farsi conoscere, non incassare i diritti. Tanto per fare un esempio: quanti di voi hanno comprato il 45 giri di Pop Corn ? Probabilmente nessuno. Nonostante questo il suo autore, Gershon Kingsley, ha fatto i soldi con i diritti venduti agli autori dei videogame Digger e Pengo .

Gli spartiti musicali ed i testi teatrali sono un esempio classico di materiale che può essere trattato in questo modo. Ad alcuni autori (giustamente) non interessa niente se un gruppo di amici usa questi materiali a fini personali, ad esempio per suonare ad una festa tra amici o per una rappresentazione universitaria. Preferiscono sperare che la diffusione dei loro prodotti (anche) attraverso questi canali, in un futuro non troppo lontano, li metta nella condizione di poter chiedere il pagamento dei diritti a qualche radio, a qualche televisione od a qualche grande casa di produzione cinematografica.

Un altro esempio classico di materiale che viene trattato in questo modo sono i libri e gli articoli tecnici del settore informatico. Senza andare a cercare molto lontano, l’autore di questo pezzo viene pagato solo per la pubblicazione di questo testo su Punto Informatico (che, a sua volta, usa questo pezzo come vettore pubblicitario). Ogni altro impiego di tipo non commerciale è libero e gratuito (gli articoli sono sotto licenza Creative Commons – Some Right Reserved).

Modelli generici

Lo “Street Performer Protocol”
Alcuni dei programmi più famosi per la creazione di reti Peer-To-Peer di terza generazione (anonime e cifrate), come MUTE e ANTs P2P , vengono sviluppati seguendo la stessa logica che segue un qualunque artista di strada (“street performer”): l’artista continua a suonare soltanto finché gli spettatori continuano a pagare.

Questo “protocollo” è stato formalizzato in un famoso scritto di Bruce Schneier e John Kelsey di qualche anno fa e da allora è stato usato da diversi sviluppatori software, come ad esempio Tom Lord, l’autore del raffinato sistema di controllo delle versioni del codice sorgente Arch , una alternativa a CVS e SubVersion. Questo stesso modello di business può essere usato per qualunque prodotto digitale, soprattutto se fa parte di una sequenza.

I modelli di business che abbiamo descritto brevemente qui sopra sono solo alcuni di quelli esistenti e solo una minima parte di quelli che possono essere escogitati da uno specialista di marketing. Eppure, anche solo questi pochi esempi rendono evidente il fatto che esistono molti altri modi di affrontare il problema della copia abusiva, alcuni dei quali decisamente più adatti al terzo millennio di quanto lo sia quella improponibile azione di “blindatura” dei sistemi che cercano di mettere in atto da anni RIAA ed MPAA.

Bruce Schneier, nel suo articolo sullo Street Performer Protocol, fa notare come in futuro sarà sempre più difficile far valere i propri diritti d’autore, non importa quali siano gli strumenti di coercizione tecnologica che possano essere messi in campo dalle industrie e dai governi. Gli strumenti usati per la copia e per la distribuzione abusiva sono sostanzialmente gli stessi usati per la registrazione personale di eventi (telecamere, registratori, macchine fotografiche etc.) e per la comunicazione (Internet ma anche reti GPRS, UMTS, Wi-MAX e, in futuro, reti Mesh). Non è quindi immaginabile che si riesca a fermare a lungo questa rivoluzione. Ha molto più senso rinnovare il modello di business della propria azienda in modo tale che essa torni a svolgere un servizio socialmente utile e per il quale l’utente finale trovi giusto pagare.

Alessandro Bottoni
http://www.laspinanelfianco.it/

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Pubblicato il 9 mag 2006
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