IT, quando si lavora in una multinazionale

IT, quando si lavora in una multinazionale

Ne parla uno sviluppatore italiano che costruisce la propria esperienza internazionale e spiega: non cercate albi e salari altissimi, lavorate sodo e a testa bassa, accettando flessibilità e dinamiche globali
Ne parla uno sviluppatore italiano che costruisce la propria esperienza internazionale e spiega: non cercate albi e salari altissimi, lavorate sodo e a testa bassa, accettando flessibilità e dinamiche globali

Zurigo – Buon giorno, redazione e lettori di PI, volevo inserirmi sul dibatto in corso relativo alle professioni IT di queste ultime settimane. Mi presento: lavoro nel settore dello sviluppo software dalla prima metà degli anni novanta del secolo scorso, le mie esperienze sono facilmente verificabili ed ho ottime referenze da tutti i miei pregressi datori di lavoro. Circa tre anni fa ho intuito che un’esperienza internazionale potrebbe in futuro fare la differenza.

Dal 2004 sono team leader per gli sviluppi in Java presso una grossa banca d’investimenti a Zurigo. Coordino sviluppi in 4 sedi diverse (Londra, Zurigo, Singapore, New York); lavoro in un ambiente multiculturale, la mia lingua è l’Inglese per 4 giorni alla settimana.

Quest’anno il CIO (il capo del settore IT, dalle infrastrutture allo sviluppo) ha dato ordine di spostare il 40% del budget a Singapore e di tenere in casa solo quelli che fanno la differenza; devo in questi giorni compilare la lista delle “eccedenze”, forse ci finisco dentro anche io.

Sorpresa? Per niente, viviamo in un mondo globalizzato, le località off-shore offrono gli stessi servizi a un terzo ed anche meno del costo che si sostiene da noi in occidente. Addirittura l’India sta diventando troppo costosa e ci si sta spostando verso la Cina.

Quello di cui è necessario rendersi conto è che i player IT (specie nello sviluppo) non sono associazioni di beneficenza, essi devono massimizzare il ritorno sull’investimento e generare ricchezza da distribuire agli azionisti. Ora, il modo più semplice è tagliare i costi e ridurre il rischio.

La strategia ben consolidata (e non solo in Italia) è: spostare il costo del personale su contractors esterni per spalmare su di loro il rischio economico delle prestazioni assistenziali, ridurre la gestione del personale ad una commodity, tenere in casa solo professionisti in grado di fare la differenza. Ridurre al massimo la formazione e trarre vantaggio da esperienze e conoscenza acquisiti fuori dall’azienda.

In un settore dominato da queste dinamiche, gli spazi di ingresso e le opportunità di crescita personale si riducono al massimo; lo sfruttamento diventa la normalità. Questo non significa che non esistano: significa che la competizione diventa estrema e che solo chi ha davvero talento riesce ad emergere. Un po’ di fortuna certo non guasta ma il lavoro duro e il sacrificio sono necessari.
Per ogni Kent Beck ci sono milioni di programmatori sfruttati, per ogni Steve Jobs decine di migliaia di illusi!

Ora leggo sul forum gli scritti di persone che sanno Java,.NET, C++, C#, XML, XSLT, Visual Basic e tutto quello che gli viene in mente ma non hanno mai lavorato in maniera continuativa o verificabile, di altri che sono neo laureati o junior ( < 3 anni d'esperienza) e tutti che "pretendono" salari alti (se non altissimi). Leggo di quelli che si permettono di dire che il nostro lavoro dia prestigio e chiamano gli operai specializzati esperti in macchine a controllo numerico "bassa manovalanza". Premesso che il lavoro in quanto tale dà dignità al lavoratore, mi spiace dire che oltre a lamentarsi ho letto ben poche proposte razionali e ponderate.

Ho letto molti invocare albi professionali, scaglioni tariffari e altre idiozie identiche. Guardiamo un po’ alle professioni regolamentate in questo modo. Architetti: se inizi a guadagnare a 35 anni sei fortunato. Avvocati: tirocinio obbligatorio e quasi sempre gratuito. Giornalisti: stessa identica storia, per ogni Giorgio Bocca migliaia di scribacchini sottopagati. Davvero vogliamo che l’informatica diventi come il notaio, una professione che si eredita di padre in figlio?

Non esistono semplici suggerimenti o una lista delle cose da fare per poter avere una chance di un buon posto, un buono stipendio e l’avvenire assicurato. Sicuramente serve l’umiltà di capire che per molti questo non è il lavoro che fa per loro, serve la forza di andare avanti e la determinazione per sopportare gli inevitabili sacrifici che una scelta di questo tipo impone.

Tutto il resto sono che puerili rivendicazioni di chi ancora non si è svegliato dal sogno della NET economy!

Cordialmente
A.A.

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Pubblicato il
2 mar 2007
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