Gratis online? Un falso storico (1.0)

Gratis online? Un falso storico (1.0)

di Alessandro Venturi. Il grande equivoco: il gratis in rete non è per nulla gratuito. Solo le cose veramente gratis in Rete tendono a scomparire, o a divenire a pagamento: vedi ad esempio il caso Napster, o la storia della Radio
di Alessandro Venturi. Il grande equivoco: il gratis in rete non è per nulla gratuito. Solo le cose veramente gratis in Rete tendono a scomparire, o a divenire a pagamento: vedi ad esempio il caso Napster, o la storia della Radio


Roma – Secondo alcuni osservatori delle tendenze della Rete, vi sarebbero segnali preoccupanti che indicano la prossima fine del “gratis in rete”. Oltre che in base a fatti circostanziati, vedi il caso Napster, la fosca previsione si basa sulla constatazione che “la pacchia non può durare ancora a lungo”, prima o poi la gente dovrà rassegnarsi a pagare se vuole avere informazioni, servizi, contenuti multimediali, e così via.

In questo ragionamento c’è però un equivoco di fondo: gran parte del gratis in rete a ben vedere non è per nulla gratuito. Solo le cose veramente gratis in Rete tendono a scomparire, o a divenire a pagamento: vedi ad esempio il caso Napster. Certo, posso leggere a sbafo La Repubblica. Ma se posso farlo è perché il sito www.repubblica.it è infarcito di pubblicità, e la pubblicità, si sa, costa. Gli inserzionisti che acquistano banner ed altri spazi promozionali investono ingenti somme di danaro, per cui è evidente che i prodotti pubblicizzati finiranno per costare di più. Le 1.500 lire che risparmio oggi leggendo il quotidiano on-line le spenderò domani comprando un prodotto gravato dei costi spesi da chi l’ha prodotto per fargli pubblicità.

Peraltro, non sono solo i contenuti “di marca” a non essere gratis, ma anche quelli forniti da migliaia di appassionati che mantengono on-line delle pagine personali senza ricavarne denaro, usufrendo di spazio web gratuito. Questo spazio web, in realtà, è costellato di pubblicità (si pensi a Geocities), e viene utilizzato dai portali come “contenuto” che attira visitatori. Dal momento che gli inserzionisti pagano un tanto a visitatore che vede il banner, si capisce che anche il web “non ufficiale” è un business, e come tale alla resa dei conti è tutt’altro che gratuito.

Anche per la posta elettronica gratuita si può fare un discorso analogo: la visualizzazione della posta di ogni account web presuppone la visione di un banner ad ogni operazione (lettura, cancellazione, inoltro, ecc.), oltre al collegamento iniziale con la home-page del portale, che comporta la visione di ulteriore materiale promozionale. Inolte l’indirizzo di posta viene utilizzato per l’invio di newsletter che a loro volta contengono pubblicità.

In definitiva, di veramente gratuito in rete c’è molto poco, e per quanto riguarda il Web lo si trova nei siti delle università e delle scuole, degli enti pubblici, delle fondazioni, delle organizzazioni, umanitarie, religiose e non-profit. A patto però di considerare gratuito qualcosa che comunque viene finanziato attraverso tasse, lasciti e donazioni. Web a parte, sostanzialmente gratuite rimangono ICQ, IRC e Usenet, per il momento libere da pubblicità, se si eccettua lo spamming che in esse circola.


Stabilita la natura fittizia del gratis in Rete, è lecito chiedersi: si va comunque verso la fine del gratis fittizio? Si affermerà il modello “pay-per-click”? Effettivamente, gli investimenti pubblicitari web negli USA sono calati per la prima volta nella storia nell’ultimo quadrimestre 2000. Ma questo potrebbe dipendere da cause più generali, come la crisi delle dot.com (che rimangono attualmente i principali acquirenti di pubblicità on-line), o addirittura il “dramatic slowdon”, come l’ha definito Greenspan, di tutta l’economia degli Stati Uniti che pare avviarsi alla recessione. In un epoca di grande volatilità degli indicatori economici, forse per capire dove potrà tirare il vento è meglio affidarsi alla storia e alla teoria della comunicazione, anche se queste danno indicazioni discordanti.

In questa prima “puntata”, con un breve excursus storico, vediamo quali sono i motivi che fanno propendere per il mantenimento del modello pubblicitario.

Perché la storia? Perché consente di osservare delle analogie fra lo sviluppo della radio e quello di Internet. Agli inizi del secolo scorso, la radio veniva utilizzata solo da una ristretta cerchia di appassionati per comunicare in libertà da un capo all’altro del mondo. Questi radio-amatori conoscevano tutti i segreti della nuova tecnologia, mentre gran parte del resto del mondo utilizzava il telegrafo. Lo sfruttamento commerciale del nuovo mezzo di comunicazione iniziò solo una decina d’anni dopo che le grandi compagnie del telegrafo lungamente lo avevano snobbato, senza accorgersi dell’obsolescenza del loro “core-business”. Ma la vera svolta avvenne quando si capì che per fare fruttare la radio occorreva creare trasmissioni “broadcast”, sostituendo la rete di radio-amatori con poche emittenti centralizzate che trasmettevano programmi uguali per tutti. Fu così che naque la radio come la conosciamo oggi.

Ora, se si guarda a Internet, si può notare l’analogia fra gli appassionati radio-amatori e gli smanettoni della rete, fra la posta elettroinica e le conversazioni via etere da un capo all’altro del mondo, fra le compagnie del telegrafo e i grandi giganti multimediali che inizialmente vengono spiazzate e poi si mangiano Napster, fra le emittenti centralizzate e i portali web generalisti tutti eguali.

Ecco allora che il modello radiofonico, e in parte quello televisivo che ne è derivato, può forse essere considerato una pietra di paragone. Anché perché le analogie non si fermano qui. In Italia negli anni ’70 sono nate le “radio libere”, allorquando bastavano un po ‘ di passione e un’apparecchiatura da poche lire per costituire dal nulla un’emittente a tutti gli effetti. Se prima i cittadini erano abituati a pagare un canone alla RAI, la moltiplicazione spontanea di voci alternative e gratuite ha in qualche modo “viziato” l’audience, che ha cominciato ad abituarsi alla radio “gratis”. Quando sono nate le prime “radio private”, vuoi come evoluzione delle radio libere, vuoi come iniziativa imprenditoriale, era impensabile potere chiedere un “canone”. Certo vi erano anche difficoltà tecniche a rendere problematico un eventuale modello di radio a pagamento, tanto più che molte persone non pagavano neppure il canone alla RAI. Ma soprattutto, si stava affermando un modello nuovo, quello pubblicitario, ad opera del quale negli anni ’80 alle radio libere si sono sostituite definitivamente le radio private locali.


Il modello ha funzionato fino agli anni ’90, quando la domanda del mercato pubblicitario si è modificata in modo tale da rendere più redditizia la struttura a network nazionale. Alle piccole emittenti locali si sono sostituiti, o affiancati, nuovi network nazionali. Un percorso simile lo si ritrova con la televisione, anche se in questo caso si è partiti fin da subito, nei primi anni ’80, con alcuni canali nazionali commerciali, dal momento che i costi rendevano proibitive eventuali esperienze di “TV libere”. I costi maggiori hanno anche strutturato il mercato in modo diverso, con una maggiore incidenza dei network nazionali e una certa marginalità delle TV locali. L’introduzione della pay-TV non ha modificato di molto lo scenario, tanto è vero che l’audience di Tele+ e Stream è del tutto marginale rispetto a quella delle reti Fininvest.

Ora, se ora si guarda all’evoluzione del Web, si può vedere che inizialmente si è avuta una fase amatoriale e “libera”, in cui gli appassionati costruivano siti rudimentali ma ricchi di informazioni e risorse, ospitati semi clandestinamente su server di università o altre organizzazioni. Successivamente, molte pagine Web “libere” sono state incorporate in siti più grandi, che ospitavano sui loro server varie pagine personali, creando una sorta di network di siti “locali”. Accanto a questo fenomeno, vi è stato quello delle directory e dei motori di ricerca che tramite i link creavano collegamenti a siti periferici che non venivano accentrati fisicamente a livello di server, ma di fatto venivano interconnessi dal punto di vista dell’utente, il quale con un solo click passava dalla directory al sito collegato. Infine, si è passati alla logica del portale che ha in parte incorporato risorse esistenti, in parte ne ha create ex-novo. Questo ricorda molto quei network radiofonici che hanno rilevato le radio locali, imponendo programmi unificati accanto alle produzioni locali, ma anche quelli che hanno direttamente rilevato le “risorse umane” (DJ, speaker, tecnici).

Se le analogie storiche continueranno, il modello pubblicitario è destinato a durare, trovando un suo equilibrio. Dopo tutto, ciò che garantisce il suo funzionamento è la presenza di audience. Se c’è audience, ci sono investimenti pubblicitari, e se ci sono investimenti pubblicitari il Web può funzionare senza bisogno del pay-per click. E se nell’attuale contingenza gli investimenti sono calati, l’audience continua ad aumentare, nonostante qualche ridicolo allarme sui “pentiti della rete”. Dunque la fine del gratis fittizio potrebbe essere più lontana di quanto paventato dagli allarmisti di professione. Ma c’è un però: e se il modello di riferimento non fosse quello radio-televisivo bensì quello a pagamento della carta stampata? In fondo, se paghiamo 1.500 lire per comperare la Gazzetta dello Sport, perché non dovremmo spendere per collegarci al sito della Gazzetta? Vedremo la questione nel dettaglio nella II parte.

Alessandro Venturi

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Pubblicato il
17 feb 2001
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