Lavoro IT, non è questione di diritto

Lavoro IT, non è questione di diritto

Michele Favara Pedarsi racconta la propria esperienza nel settore, e spiega perché vuole ricollocarsi all'estero e perché è meglio far niente piuttosto che fare certe cose
Michele Favara Pedarsi racconta la propria esperienza nel settore, e spiega perché vuole ricollocarsi all'estero e perché è meglio far niente piuttosto che fare certe cose

Londra, 1770, uno scritto anonimo dal titolo An essay on trade and commerce ad un certo punto recitava con tono insofferente: “La nostra plebe si è messa in testa l’idea fissa che le spetti, come inglese, per diritto di nascita, il privilegio di essere più libera e indipendente (della popolazione lavoratrice) di ogni altro paese di Europa. Ora, questa idea può essere di qualche utilità quando influisca sul coraggio dei nostri soldati, ma quanto meno essa è forte negli operai manifatturieri, tanto meglio per loro e per lo Stato. Gli operai non dovrebbero ritenersi mai indipendenti dai loro superiori. È estremamente pericoloso incoraggiare la plebe, in uno Stato commerciale come il nostro, dove forse, su otto parti della popolazione complessiva, sette sono gente con scarsa o nessuna proprietà… La cura non sarà completa, finché i nostri poveri dell’industria non si acconceranno a lavorare sei giornate per la stessa somma che ora guadagnano in quattro giornate” . Oggi siamo nella Società dell’Informazione, il traino dell’economia è l’informazione, e di conseguenza gli operai siamo noi lavoratori IT.

E quando un giovane di belle speranze è felice di rinunciare a sei preziose ore di sonno – preziose perchè il giorno dopo lo aspetta una pesante giornata universitaria – per risolvere il blocco di server dell’azienda senza essere pagato, senza che questo rientri nei suoi oneri contrattuali, e finendo per fare dell’outing a mezzo stampa, mi viene da pensare che a distanza di quasi 300 anni la cura è completa. Leggere la sua lettera mi ha ricordato me stesso ai primi anni di lavoro, quando invece di assecondare il capo che voleva mandarmi a casa per impossibilità a lavorare, mi rimboccai le maniche per aiutarlo a pulire il controsoffitto che ci era caduto in testa mentre eravamo tranquilli e beati davanti ai nostri terminali.

Dopo quel mio primo lavoro, che abbandonai perché non avevo stimoli intellettuali da quell’attività, ne seguirono molti altri: società piccole, medie e grandi; collaboratore, consulente, dipendente. Poi iniziò una sorta di ronzio di fondo: iniziarono a chiamare aziende che proponevano contratti semplicemente privi di valore legale a causa del loro squilibrio intollerabile dal punto di vista dei codici; interventi spot, contratti part-time o full-time di durata limitata nel tempo, ben pagati, si rarefacevano mese dopo mese tra un esame e l’altro all’università; proprio come accade all’aria, passo dopo passo, durante la scalata di una montagna molto alta.

Io feci un giro di telefonate ai colleghi con cui in genere ci passavamo lavoro periodicamente, proponendo loro di organizzare un hub aperto, non profit, per facilitare questo passaparola. Alcuni di loro invece a mia insaputa avevano iniziato a fare ciò che fino a quel momento, dall’altro lato della barricata – ie: da lavoratori – avevamo evitato accuratamente: trovare l’ultimo sprovveduto sociale dotato però di grandi capacità tecniche, e metterlo a lavorare al posto loro presso i prestigiosi clienti che avevano conosciuto dopo qualche anno di attività durante l’era coloniale dell’informatica di massa. Da lì a poco scoprii che il ronzio era un treno ad alta velocità che in lontananza si stava preparando ad investire l’IT. E bolla fu: le dot com cadevano come mosche, qualche fortunato speculatore guadagnava il 400% ad un giorno solo dalla quotazione in borsa, il valore del lavoro IT si dimezzava allo stesso ritmo con cui la potenza dei processori aumentava. A qualcuno di noi lavoratori IT vennero in mente le lotte operaie contrarie all’introduzione delle macchine nelle fabbriche.

Qualche mese fa ricevetti una email telegrafica da un genio che di tanto in tanto ha illuminato la mia strada; confabulava di una informatica intrinsecamente deflazionaria e soprattutto disse una cosa che mi lasciò di stucco: “Mediamente sempre meno gente farà sempre meno soldi con le tecnologie”. Ed era vero, perché era quello che avevo sempre vissuto: il prezzo dei computer scende sempre, al massimo rimane temporaneamente stabile o quando c’è un incremento del livello tecnologico (ivi inclusi i cambi di bus, o di connettori, o di zoccoli, o di form factor delle motherboard), o una barriera potenzialmente artificiosa come può essere, ad esempio, l’innalzamento della pesantezza del sistema operativo per indurre la necessità di una CPU più potente.

Analogamente il valore del mio lavoro scende sempre, a meno che io non continui, vita natural durante, a coltivare la mia passione per l’IT – aumentare le mie competenze – agli stessi ritmi di quando avevo 18 anni, ovvero studiando e testando di notte, per passione, quello che sarò forse chiamato a sapere tra 2-3 mesi. Io non credo che tra qualche anno, magari con 2 figli e moglie a cui badare, potrò permettermi di passare le nottate con birra, pistacchi, sigarette, tastiera e mouse a portata di mano. Perché già oggi noto una certa difficoltà a dormire solo 2 ore.

Anche io una volta pensavo che lavorare era tutto; poi quando ho capito che non era una questione di diritto ma di economia, di rapporto tempo/soldi, di utilità, di numero di intermediari tra me e il cliente, di gradino d’ingresso esattoriale – fatturare minimo 32.000 euro/anno – da affrontare per potersi mettere in proprio, ho iniziato a chiedermi perché l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro anziché sul tempo da dedicare a noi stessi, quel tempo cioè che in teoria la tecnologia avrebbe dovuto restituirci. In questi mesi invece sto cercando di capire come trasferirmi all’estero per poi riposizionarmi in un altro settore. Voi che intendete fare?

Permettetemi per una volta di concludere con un umile suggerimento esplicito, umile perché lo pronuncio come farebbe un conoscente “giù in piazzetta”, ovvero di leggere, tra un manuale e un altro, un piccolo saggio di Paul Lafargue, genero e detrattore di Karl Marx, intitolato “Le droit à la paresse” (“Il diritto alla pigrizia” o “Il diritto all’ozio”) da cui ho estratto quel pragmaticissimo testo inglese di fine ‘700. Perché io da quando l’ho letto, ogni volta che dico “niente” a chi mi chiede cosa faccio nella vita, mi sento un fortunato.

Michele Favara Pedarsi (*)

(*) – MFP è autore di diversi contributi apparsi su Punto Informatico, disponibili a questo indirizzo

Sul tema vedi anche:
Lavorare nell’IT in Germania
Lavoro nell’IT, in Romania però
Lavoro nell’IT? Io sono andato all’estero
IT? Il regno del precariato
IT? Il lavoro c’è, eccome. Manca la voglia

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Pubblicato il
12 mar 2007
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