Dal wizard all'assistente virtuale

Dal wizard all'assistente virtuale

Come si passa da software che interpretano input imprevisti ad un'assistente virtuale sexy quanto basta, che gli utenti li prende per mano? A Punto Informatico parlano i due papà di Claudia, una VAMP
Come si passa da software che interpretano input imprevisti ad un'assistente virtuale sexy quanto basta, che gli utenti li prende per mano? A Punto Informatico parlano i due papà di Claudia, una VAMP

Il nome Kallideas nasce dall’unione tra kalòs (in greco “bello”) e ideas (dall’inglese), una fusione tra eredità classica mediterranea ed esigenze anglosassoni, per proporre creatività italiana al servizio di tecnologia internazionale. Ed è questo il nome di un’azienda attiva da diverso tempo nel cosiddetto interactive design per applicazioni aziendali e nel mondo dei virtual assistant.

L’idea di fondo è sviluppare sistemi interattivi, capaci di reagire a stimoli imprevedibili , come possono essere le richieste dei clienti. I software sviluppati sono utilizzati per fornire risposte di “primo grado” in un call center o per assistere le persone attraverso procedure guidate. Da qui si giunge al virtual assistant, individuo di sintesi che “dà una faccia ed un corpo alla tecnologia” e su cui ora Kallideas, tra gli altri, punta moltissimo.

Il primo modello elaborato da Kallideas si chiama Claudia ed è la visualizzazione in forma umana di un sistema di intelligenza artificiale che è in grado di dialogare con il cliente. Claudia dunque è capace di muoversi e sorridere, ma non con uno script (cioè in maniera predeterminata), bensì esprimendo emotività in base a ciò che gli si dice. Punto Informatico ne ha parlato con Leandro Agrò e Giorgio Manfredi, fondatori e animatori del progetto.

Punto Informatico: In che modo Claudia è in grado di interagire con chi ci parla?
Giorgio Manfredi: Il nostro approccio mira a svincolarsi dalla tecnologia. Se dici “viaggio” o lo scrivi o lo selezioni non importa, noi lavoriamo su quello che avviene dopo, quando quest’informazione è elaborata.

PI: Un’interfaccia avanzata, un sistema evoluto che si occupa del “dopo”, un volto per le macchine…
Manfredi: Se la tecnologia avanza, io non cambio nulla, la mia tecnologia migliora adattando solo il primo strato. E questo ci consente di lavorare meglio sulla comprensione e l’elaborazione dei concetti.

PI: Ma c’è davvero bisogno di un virtual assistant?
Leandro Agrò: Come dice Bruce Sterling viviamo già in un ecosistema misto di cui uomini e macchine sono parte integrante e di questo dobbiamo prenderne atto perché comporta che molte volte ci troviamo ad avere un dialogo con oggetti o con altre persone ma attraverso oggetti.

PI: Volendo sintetizzare, significa umanizzare le macchine…
Agrò: In questo quadro relazionarsi con i bit diventa cruciale e in un mondo simile occuparsi di virtual assistant vuol dire pensare ad un avvicinamento alle macchine attraverso la creazione di un piano intermedio, in cui le macchine tendono ad assomigliare un po’ di più alle persone, non tanto dal punto di vista visivo ma più che altro da quello comportamentale.

Claudia PI: Su che architettura si basano i vostri sistemi?
Manfredi: È un’architettura modulare i cui moduli comunicano mediante un protocollo proprietario: VAMP, ovvero Virtual Assistant Modular Protocol.
Banalizzando possiamo dire che i moduli funzionali sono suddivisibili in due categorie: quelli interni alla “Black Box”, che sono deputati a manipolare i concetti (le informazioni scambiate attraverso il dialogo con l’interlocutore) in modo astratto dal media di riferimento, e quelli esterni alla “Black Box”, che si preoccupano di tradurre/trasportare tali concetti verso il mondo esterno, sia esso un media di erogazione (web, telefono etc..) che una knowledge base a cui fare un’interrogazione.
Essendo poi i moduli dell’architettura “disaccoppiati” da un protocollo, i linguaggi con cui sono scritti diventano non vincolanti e non devono essere necessariamente omogenei. Oggi quindi la maggior parte del codice è scritto in C e in Ruby.

PI: In quali ambiti pensate che Claudia possa dare il meglio di sé?
Agrò: C’è moltissimo. Pensa ad un sistema banale, in cui fruisci tramite video di una lezione. Poi però c’è una parte di esercitazione che chiaramente non puoi fare con il docente, qui scatta l’assistente virtuale che, non è solo una faccia, ma soprattutto un cervello che analizza i dati che ha inserito la persona che sta facendo il test e poi passa i risultati al docente (non al suo video ma proprio alla persona) che può valutare le performance e contattare i singoli studenti.
Per non parlare poi del settore dell’intrattenimento: mia madre non sa usare un videoregistratore perché è una cosa meccanica con un’interfaccia digitale, un approccio che lei non ha mai assorbito. Se il set top box potesse però registrare una trasmissione unicamente premendo un pulsante sarebbe più semplice per lei. E questa è una tecnologia che oggi è già disponibile (vedi MySky) basta aggiungere solo l’ultimo pezzo, quello più umano e più “intelligente” che ti chiede: “Vuoi registrarlo tutte le settimane?”. PI: Quanto vi ci vuole a sviluppare e realizzare un sistema come virtual assistant?
Manfredi: Dipende dal tipo di progetto e da come è strutturata la conoscenza aziendale che un virtual assistant deve erogare. Un progetto normale dura 2 o 3 mesi; progetti che includono: modellizzazione attraverso A.I., utilizzo di dialoghi aperti (tipo NLP) o ricostruzione della knowledge base arrivano anche a 6 mesi (questo anche perché le aziende in cui normalmente tali progetti vengono calati hanno dinamiche interne che comunque dilatano i tempi).
A lavorarci ci sono circa 15 persone, suddivise in un gruppo di sviluppo del prodotto e in un gruppo di specialisti del prodotto deputati alla delivery. Tutte le persone sono comunque coinvolte nella fase di analisi per l’evoluzione del prodotto. Il gruppo contiene, in ordine sparso, sviluppatori, knowlwdge engineer, dialog designer, user interface designer, sistemisti, sw architect, project manager e 3D designer.

PI: E se poi il virtual assistant umanizzato, Claudia o altri, risultasse.. antipatico?
Manfredi: Il rischio c’è, ma è lo stesso che può accadere con un operatore umano. Il principio fondamentale è la non invadenza: l’assistente deve presentarsi solo quando lo richiedi tu.

PI: L’assistant è però anche limitato dal medium con cui si presenta: se devo essere sincero mi sembra improbabile che gli utenti accettino di parlare ad uno schermo, ad esempio, quando sono in mezzo ad una stanza
Agrò: E hai ragione! Infatti io non credo che gli assistenti virtuali debbano mai essere personali, perché è un concetto che è legato ad un uso personale del computer mentre il personal computer ormai è da anni che è morto. Il virtual assistant invece per me deve essere l’estensione di una compagnia, non di una persona.

PI: Che intendi?
Agrò: Pensare che un singolo assistente virtuale possa risolvere tutte le istanze di un uomo è follia, ma pensare che un assistente virtuale, che tra le altre cose riconosce testi o input vocali, sia un’estensione della banca è un altro conto. Perché quando mi collego ad un sito di home banking ogni volta devo rifare le stesse cose, ma se subito dopo il login mi compare una faccina che mi strizza l’occhio e mi chiede se voglio sapere le solite cose e poi con un solo click mi mostra l’aggiornamento del mio saldo posso risolvere il 90% delle situazioni, perché solitamente non serve altro.

PI: Siamo pronti ad accettare un rapporto diretto e funzionale con una ragazza giovane e trendy?
Agrò: È una semplificazione che la nostra mente accetta volentieri. Pensa all’alzacristalli elettrico della macchina: in linea di massima non sai come funzioni ma vedendo unicamente un pulsante ti fai una tua idea di quale sia il meccanismo che lo lega al movimento del vetro. Il virtual assistant può essere un po’ come il pulsante dell’alzacristalli: qualcosa che ti fornisce una visione semplificata – ed accettabile – del mondo.
Inoltre, mentre è molto improbabile che qualcuno sviluppi empatia nei confronti del pulsante dell’alzacristalli, molti sviluppano emotività verso l’automobile. Il fatto di poter sviluppare empatia verso gli assistenti virtuali è senz’altro un aspetto controverso ma anche una delle chiavi di lettura dell’interesse che suscitano, nonché del loro potenziale successo.

a cura di Gabriele Niola

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Pubblicato il
13 giu 2007
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