Elettronica consumer? Welcome to the Jungle

Elettronica consumer? Welcome to the Jungle

La fauna, la catena alimentare del mercato, i fattori che definiscono i prezzi. Il consumatore italiano? Un animale che stenta ad adattarsi
La fauna, la catena alimentare del mercato, i fattori che definiscono i prezzi. Il consumatore italiano? Un animale che stenta ad adattarsi

“Il mercato è una jungla”, si sente dire talvolta in certi film o nelle interviste ai broker di Wall Street. E della foresta, effettivamente, “i mercati” ripropongono diverse caratteristiche: il terreno è spesso aspro e accidentato, i trabocchetti sono all’ordine del giorno e, soprattutto, per ogni preda ci sono in agguato molti cacciatori. Poi, però, c’è jungla e jungla. E così magari scopri che, come recentemente documentato su queste pagine con riferimento al settore dell’elettronica consumer (EC), spesso bastano pochi accorgimenti per rendere la selva meno ostile: segmentando adeguatamente le riserve di caccia di ciascuno, e mantenendo un buon riserbo sulle proprie tecniche venatorie, i cacciatori possono garantirsi una più agevole sopravvivenza. Fuor di metafora, documenti e pronunciamenti pubblici confermano che in questo settore ogni realtà nazionale viene ancor oggi trattata dalla filiera industriale come uno spazio di caccia distinto ed impermeabile rispetto a quelli circostanti. Con la conseguenza che i prezzi permangono fortemente differenziati da paese a paese e, a volte, costa meno volare a comprare un software dall’altra parte dell’oceano che acquistarlo nel negozio sotto casa.

Resta però da capire come queste “riserve di caccia” siano composte. Chi le popoli, come funzionino al loro interno, quali siano le specificità. Per farlo Punto Informatico ha chiesto una mano a due esperti: Ezio Asci , Amministratore Delegato di Hyundai ImageQuest Italy , e Roberto Guzzi , Country Manager di Dexxon ).

“Il mercato dell’elettronica di consumo è cambiato in modo radicale negli ultimi anni. Nell’arena sono entrati nuovi competitori, provenienti dai paesi emergenti, che fanno concorrenza spesso anche sleale. E la pressione sui prezzi, in alcuni casi, è diventata fortissima”. Sono queste le parole con cui Guzzi introduce al “clima generale” della foresta. Forse, azzardiamo noi, i nuovi cacciatori sono stati attratti dalle dimensioni e dalla vitalità del mercato in questione: secondo uno studio congiunto di CEA e GFK, infatti, il fatturato globale prodotto dalla vendita al dettaglio di elettronica di consumo crescerà nel 2008 di ben il 10% rispetto all’anno precedente, per arrivare nel 2009 alla ragguardevole cifra di 700 miliardi di dollari. Ed anche se, come documentato nello studio, a trainare la crescita sono primariamente i paesi emergenti dell’Est e del Sud del globo, anche in Europa occidentale le tecnologie di consumo restano una voce di spesa importante, con un volume di vendite che nel 2009 dovrebbe superare i 114 miliardi di dollari (16,3% del fatturato mondiale di settore). E in Italia?

In Italia , secondo le stime di GFK MS Italia , solo nei primi 6 mesi del 2008 le vendite al dettaglio di IT hanno prodotto valore per oltre 1760 milioni di euro , pari al 23,6% della spesa complessiva per beni di consumo durevoli da parte di individui e famiglie. E il peso relativo del comparto, già di per sé considerevole, arriva fino al 44% del totale laddove alle vendite di IT si aggiungano anche quelle di telefonia e fotocamere digitali. Come a dire, in altri termini, che quasi metà della spesa degli italiani per articoli di consumo durevoli se ne va in gadget digitali.

Insomma, la prima cosa che abbiamo capito è che nella jungla dell’elettronica di consumo si può guadagnare un bel po’ e che – forse proprio per questo – sono tanti gli attori che vorrebbero partecipare alla caccia. Solo che, ci spiegano subito dopo i nostri informatori, non tutti i cacciatori sono uguali , e nella foresta si incontrano tanti tipi di player diversi. I primi da presentare sono senz’altro i produttori veri e propri, quelli cioè che realizzano nei propri stabilimenti le componenti fisiche di cui sono fatti i nostri computer, cellulari, videocamere etc. E i produttori , come ci spiega Ezio Asci di Hyundai ImageQuest Italy, sono molti meno di quanti potremmo pensare: “Per ogni singola componente di ogni prodotto esistono nel mondo pochi (o pochissimi) produttori iper-specializzati, che lavorano come terzisti per tutti i grandi marchi in commercio”.

La ragione della concentrazione , spiega Asci, è da ricercarsi nell’elevato tasso di concorrenza del segmento EC: in un mercato altamente competitivo come quello in esame, in cui anche un solo centesimo di differenza nel costo per unità di prodotto può risultare decisivo, riescono a sopravvivere soltanto i fornitori che si iper-specializzano nella realizzazione di singole componenti, magari anche piccolissime.

A comprare dai terzisti-produttori, poi, sono altre organizzazioni, denominate trading company . A noi neofiti della jungla, forse, il nome “trading company” non dice nulla, ma parlando con gli esperti ci rendiamo conto che si tratta di soggetti che tutto sommato conosciamo da vicino. Ma ascoltiamo le parole di Guzzi, oggi a Dexxon dopo un passato in Philips: “Una volta tutte le grandi aziende – compresa quella per cui lavoravo io – producevano quasi tutto in-house, per poi rivendere con il proprio marchio. Oggi, a fronte di una concorrenza sempre più agguerrita, si ragiona in modo diverso: si valuta che cosa il mercato stia chiedendo – o cosa potrebbe chiedere nel futuro prossimo – e poi a partire da questo si commissiona la produzione ai terzisti sparsi per il mondo, in modalità just-in-time”. La jungla ci porta un’altra sorpresa, quindi. Veniamo infatti ad apprendere che dietro l’esotica etichetta di “trading company” altri non vi sono che le “marche” tradizionali, quelle che vediamo quotidianamente in tv e sugli scaffali dei grandi magazzini. Queste organizzazioni, che nel senso comune siamo ancora abituati a chiamare “produttrici”, hanno da tempo dismesso le attività manifatturiera diretta, ed agiscono oggi come mediatrici tra mercato e produttori-terzisti autonomi: studiano le tendenze, fanno gli ordinativi, assemblano e vendono. Sono tantissime, le trading company, e hanno dimensioni tra loro molto diverse: ci sono i piccolissimi brand nazionali, specializzati magari in produzioni di nicchia, ma vi sono accanto a loro i grandi marchi multinazionali che producono ogni tipo di dispositivo tecnologico.

Da ultimo, nel mercato dell’elettronica di consumo trova spazio anche un terzo macro-gruppo di attori, i distributori . Interessato negli ultimi anni da intensi processi di concentrazione e consolidamento – in Italia potrebbe scomparire a breve il terzo più grande gruppo del settore – il mondo della distribuzione è oggi presidiato da poche grandi catene, dotate di un forte potere contrattuale anche nei confronti dei “marchi”. Si tratta di un anello decisivo nella catena di diffusione dei prodotti EC, e per diverse ragioni. Da una parte, i punti vendita dei grandi retailer sono il terminale naturale (quando non l’unico) per i prodotti assemblati dalle trading company, che diversamente avrebbero scarsa visibilità per il pubblico. Dall’altra, le scelte di “composizione dello scaffale” e di promozione da parte dei gruppi distributivi hanno grande rilevanza rispetto ai consumatori, dei quali contribuiscono ad orientare le scelte stesse di acquisto. Ma come funziona, in concreto, il mercato retail dell’elettronica di consumo? Dal punto di vista della spartizione del territorio, come detto, il caposaldo fondamentale resta la segmentazione geografica dei mercati. Le unità centrali delle varie trading company suddividono l’area di riferimento (es: Europa Occidentale, Estremo Oriente etc) in segmenti distinti, generalmente corrispondenti ai singoli paesi o macro-regioni (es: Europa mediterranea, UK, Europa centrale e settentrionale etc); all’interno di queste sotto-aree, poi, ogni filiale nazionale fissa localmente i prezzi di vendita , in ragione della disponibilità a pagare degli utenti e della concorrenza presente. Attraverso i meccanismi di segmentazione, mutuati peraltro dalle stesse catene di distribuzione, viene scongiurato il rischio di competizione tra filiali nazionali diverse, e vengono mantenuti più elevati i margini di profitto complessivi del gruppo.

A fronte di tali caratteristiche, lo si può intuire, i meccanismi di formazione del prezzo non seguono esattamente le regole scritte nei manuali di microeconomia. A confermarlo è lo stesso Guzzi, che dice: “La fissazione dei prezzi per i vari articoli, diversa da paese a paese, non dipende più tanto dai costi di produzione, quanto dal tipo di sollecitazioni/pressioni che arrivano dal mercato. In altre parole, il prezzo finale si trova al punto di equilibrio tra i costi di produzione affrontati e il tasso di competizione/turbolenza del mercato in cui ci si vuole posizionare”. Quello che il country manager di Dexxon sta suggerendo è che, dato un prodotto qualsiasi, il suo prezzo finale tende ad essere fortemente oscillante a seconda delle condizioni contestuali : più che le scelte aziendali a monte, quindi, risultano decisivi l’intensità della domanda e il grado di concorrenza esistente per l’offerta del bene.

Da questa regola aurea, poi, derivano una serie di implicazioni pratiche per gli attori del sistema. La prima ha a che vedere con la necessità di andare costantemente alla ricerca di nicchie emergenti . Il perché è facilmente comprensibile: per i prodotti consolidati e di largo consumo (PC, apparecchi tv tradizionali, videocamere) esiste generalmente una concorrenza folta ed agguerrita, per cui i margini di profitto tendono ad essere limitati. Per converso, nei segmenti collegati a prodotti più innovativi (esempi recenti: netbook e tv multi-funzione) la concorrenza è meno numerosa, per cui tendono ad essere più “comodi” i margini per trading company e distributori. Con conseguenze che investono anche gli stessi assetti organizzativi interni delle trading company, come attestato dallo stesso Asci: “La competizione ha obbligato le nostre organizzazioni a diventare più camaleontiche . Fino a qualche anno fa, ad esempio, la mia azienda produceva esclusivamente prodotti IT classici (e quindi PC, notebook, periferiche etc). Oggi, per garantirci un maggiore respiro, stiamo sul mercato con una quantità di prodotti diversi, spesso collocati nelle nicchie meno battute e, conseguentemente, più profittevoli”.

Una ulteriore conseguenza ha a che vedere con le dimensioni sulle quali si compete. Quello che i nostri informatori ci spiegano, infatti, è che di fronte ad una concorrenza globale sempre più agguerrita, con nuovi attori che spingono verso il basso i prezzi per entrare nel mercato, i marchi tradizionali tendono a spostare la sfera del confronto dalla sola dimensione di prezzo a quella complessiva di ” qualità del servizio “. “A fare la differenza tra prodotto e prodotto – illustra Asci – è anche l’intensità del marketing”: attraverso l’attenzione per dimensioni “soft” come il packaging, l’estensione delle garanzie, le iniziative promozionali, le trading company provano a suggerire al consumatore l’opportunità di acquistare un intero “sistema di valore” , e non più solo un prodotto.

Ma le conseguenze più pregnanti sono senz’altro quelle che riguardano le “turbolenze” e gli “effetti-domino” relativi ai livelli dei prezzi. In condizioni stabili, le offerte dei vari player per ogni dato prodotto tendono ad addensarsi intorno al cosiddetto “prezzo di riferimento”, che è grossomodo corrispondente al prezzo medio pagato per quell’articolo nel segmento nazionale di riferimento. Tutti collocano la propria offerta nell’intorno di tale importo – chi qualche euro sopra, chi qualche euro sotto – e tutti restano sul mercato. Solo che, spiegano gli addetti ai lavori, spesso il prezzo di riferimento “salta” , e allora sono dolori per tutti.

Il meccanismo è semplice: di fronte ad un overstock di magazzino, o alla mancanza di liquidità, o all’esigenza di allargare le proprie quote di mercato, una qualsiasi delle trading company (o dei distributori) decide di abbassare in modo rilevante il prezzo per un dato gadget. A questo punto, spiega Asci, si scatena generalmente un vero e proprio “effetto-domino”: “Se, ad esempio, uno qualsiasi dei miei competitori abbassa il prezzo di una TV multifunzione di 25 Euro – argomenta – in pochissimo tempo quello diventa il nuovo prezzo di riferimento, e tutti siamo costretti ad andargli appresso”. Anche perché, continua, in quei casi sono le stesse catene di distribuzione a fare pressioni per l’abbassamento generalizzato dei prezzi: l’aumentato livello di vendite per il prodotto ribassato, infatti, si può tradurre in ridotte vendite – e quindi overstock di magazzino – per i prodotti della stessa fascia. E questo, ai distributori, non piace neanche un po’.

Le ragioni che presiedono alla “turbolenza”, come detto, possono essere le più diverse: dall’ingresso sul mercato di nuovi competitori, alla necessità di far cassa o ridurre gli stock, fino al desiderio di qualcuno di “bruciare” le quote di mercato dei concorrenti con politiche aggressive. Ma si danno addirittura casi, sostiene Guzzi, in cui gli effetti-domino si attivano quasi per errore: “Alle volte, ai dirigenti delle filiali nazionali vengono richiesti obiettivi di vendite o di fatturato molto poco realistici. I manager sanno che le richieste sono difficilmente attuabili, ma sanno anche che se non raggiungono i risultati potrebbero essere mandati a casa. A fronte di questo accade – è accaduto in passato – che vengano presi da panico da fatturato , e comincino a vendere a condizioni svantaggiose per tutti”.

Abbondanza di offerta, ingresso continuo di nuovi competitori, costante rincorsa verso il basso dei prezzi. A giudicare da quanto abbiamo visto fin qua, la “jungla” della consumer electronics sembrerebbe quasi il paradiso dei consumatori. Ma allora, viene da domandare, come è possibile che i differenziali di prezzo tra paesi restino tanto alti ed i cittadini di alcuni paesi – spesso quelli dello Stivale – si trovino a pagare per i gadget tecnologici prezzi considerevolmente più alti rispetto ai loro vicini di casa? Il nodo fondamentale, lo abbiamo sottolineato più volte, è legato alla persistenza delle pratiche di segmentazione nazionale, che consentono di tenere separati e tra loro impermeabili i diversi mercati, scoraggiando o inibendo gli acquisti transfrontalieri. Allo stesso tempo, però, la semplice presenza dei segmenti non è sufficiente a spiegare perché si realizzino proprio in Italia condizioni spesso più svantaggiose per gli utenti.

Il punto, spiegano i nostri stessi informatori, è che accanto ai vincoli dettati dalla segmentazione nazionale ve ne sono altri, collegati non solo alla (proverbiale) furberia italica ma anche alle stesse attitudini dei consumatori. Spiega ad esempio Asci: “Di tutti gli europei, gli italiani sono quelli che attribuiscono più importanza agli aspetti di design e di brand per cui, soprattutto quando l’acquisto è grosso , tendono a fidarsi solo se sopra c’è la marca. Ma di questa situazione, ovviamente, si giovano soprattutto i leader di mercato ed i loro immediati inseguitori, che sui loro prodotti griffati possono spuntare margini più elevati che altrove”.

A fronte di consumatori disposti a pagare di più per le marche quindi, i venditori reagiscono tenendo alti (più alti) i prezzi dei prodotti apicali, e con essi a cascata anche tutti gli altri. Ma al di là della predilezione per i grandi brand, spiegano gli addetti ai lavori, il punto generale è che gli italiani tendono ad essere piuttosto tradizionalisti nei loro comportamenti di acquisto: diffidenza nei confronti delle novità – seppur con alcune rimarchevoli eccezioni “telefoniche” – affezione ai cari vecchi negozi fisici , scarsa attitudine agli acquisti online. Questo’ultimo dato, in particolare, ci distanzia in modo significativo dai nostri vicini di casa europei: secondo un recente rapporto di Casaleggio e Associati, mentre in altri paesi oltre il 6% delle transazioni commerciali complessive viene già oggi realizzato in rete, in Italia l’ecommerce continua ad essere frenato da resistenze e ritardi di varia natura.

Insomma, par di capire, anche quando si tratta di tecnologia noi italiani siamo fatti a nostro modo. Ci piace comprare le “cose belle”, ci piace comprarle da chi conosciamo bene, mentre ci piace meno affidarci ai nuovi canali digitali. In una parola, siamo tradizionalisti. Peccato che anche nella jungla dell’elettronica consumer, come in molte altre, a restare attaccati alle tradizioni, senza adattarsi, si rischi di uscire dalla foresta con le ossa rotte.

Giovanni Arata

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Pubblicato il
8 ott 2008
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