L'informazione tra società e mercato

L'informazione tra società e mercato

di Carlo Gubitosa. Al di fuori delle corporazioni editoriali, giornalistiche e televisive, la società civile reclama un ruolo da protagonista nei processi che governano la produzione di informazioni
di Carlo Gubitosa. Al di fuori delle corporazioni editoriali, giornalistiche e televisive, la società civile reclama un ruolo da protagonista nei processi che governano la produzione di informazioni


Roma – Chiunque abbia parlato con un editore, con un direttore di una rivista o con un giornalista avrà sicuramente ascoltato espressioni come “crisi dell’editoria”, “crisi dei quotidiani”, “crisi del giornalismo”, e a pensarci bene tutte queste “crisi” sono un vero e proprio paradosso nell’era della cosiddetta “Informazione globale”, dove all’economia industriale si è sostituita la “New economy”, l’economia immateriale dell’informazione. In un’epoca in cui le parole d’ordine “comunicazione e informazione” riscuotono un consenso unanime, e riescono ad abbinarsi senza sforzo sia a “comunione e liberazione” che a “comunismo e rivoluzione”, è davvero strano pensare a decine di editori che ogni anno sono costretti a chiudere bottega, a riviste che stentano a raggiungere il pareggio del bilancio, a quotidiani e settimanali costretti a periodiche collette tra i loro lettori o svenduti sulla soglia del fallimento al miglior offerente.

Di fronte a questo apparente paradosso, si rende necessaria una seria riflessione sul rapporto tra il successo della “cultura dell’informazione” e la crisi dell’editoria, o più precisamente la crisi di quella parte dell’editoria che, per scelta o suo malgrado, si trova al di fuori del ristretto giro dei gruppi editoriali e mediatici “vincenti”.

Il primo fattore di questa crisi è l’affermarsi di un nuovo modo di “fare informazione” che presuppone una trasformazione e un rinnovamento del ruolo del giornalista, costretto a reinventare il suo ruolo. L’informazione è un “Lego”, un gioco di costruzioni dove i “mattoncini” (notizie di agenzia, comunicati stampa, informazioni sulle attività parlamentari) finora non erano direttamente visibili e accessibili, ma erano semplicemente utilizzati dai giornalisti per produrre un “prodotto finito”, che di volta in volta assumeva la forma di un articolo, di un dossier o di una inchiesta. La cosiddetta “rivoluzione telematica” ha “cortocircuitato” il collegamento tra le fonti di informazione e i singoli cittadini, mettendo a disposizione in rete un’infinità di documenti, non solo quelli prodotti dalle agenzie di stampa ufficiali e dagli organi istituzionali, ma anche quelli delle organizzazioni non governative, dei gruppi di volontariato e dei mille movimenti della società civile.

Questo “cortocircuito informativo” ha seriamente messo in discussione la figura del giornalista, inteso come mediatore tra le fonti di informazione e gli utenti dei servizi informativi. Gli utenti della rete hanno imparato a giocare con i “mattoncini dell’informazione”, e anziché utilizzare costruzioni già fatte da altri, preferiscono scegliere e utilizzare da soli le fonti delle loro notizie.

A questo punto, le strade che si presentano davanti agli operatori dell’informazione sono due: rimanere ancorati a una concezione del loro mestiere ormai obsoleta, serrando le fila e cercando di resistere il più possibile alla minaccia rappresentata dalla possibilità di accesso diretto alle fonti informative, oppure sforzarsi di compiere un “salto evolutivo” inizialmente più faticoso, ma che potrebbe garantire sul lungo periodo una maggiore probabilità di “sopravvivenza della specie”.


La figura del giornalista-intermediario, irrimediabilmente destinata all’estinzione, potrebbe essere rimpiazzata con successo da una nuova visione della professione, una visione in cui il giornalista non è più un passaggio obbligato per l’accesso alle fonti informative, ma piuttosto un facilitatore dell’accesso diretto alle sorgenti dell’informazione, un segnalatore di risorse e materiali interessanti, un “consulente informativo” con la capacità di aiutare gli altri a districarsi quotidianamente nel flusso massiccio delle informazioni, che ormai è diventato impossibile da gestire per le singole persone, un semplificatore della complessità, che ci aiuta a non “navigare alla cieca”, segnalandoci nuove rotte con percorsi culturali e intellettuali che ci aiutino a superare lo shock da “overdose di informazioni”, un creatore di “metainformazioni”, cioè di informazioni sull’informazione, un “bibliotecario della rete” da apprezzare non tanto per la sua capacità di documentare o argomentare, ma piuttosto per la sua abilità nel suggerirci il modo più efficace e interessante di documentarci personalmente in merito a una data questione, un professionista in grado di creare e organizzare spazi informativi aperti, orizzontali e partecipativi.

Un altro fattore che ha contribuito alla crisi dell’informazione cartacea nell’era dell’informazione globale è stata una diffusa incapacità di reagire ai cambiamenti negli equilibri di potere. Agli albori della nostra democrazia, quando il potere era ben chiuso all’interno del palazzo, la risposta della società civile a questa concentrazione di potere è stato un diffuso impegno politico, caratterizzato da una massiccia partecipazione al dibattito parlamentare, all’attività politica e alla vita dei partiti, anche da parte delle categorie sociali tenute più lontane dal potere.

Quando il potere ha cominciato ad uscire dal palazzo spostandosi nei consigli di amministrazione delle grandi multinazionali, la società civile ha saputo reagire sviluppando una serie di riflessioni sul ruolo dei cittadini-consumatoti nella costruzione dei processi globali di sfruttamento economico e ambientale del terzo mondo, un percorso culturale che ha dato come frutti alcune pratiche sociali ormai diffuse, note come “consumo critico”, “commercio equo e solidale”, “boicottaggio delle multinazionali”, “economia di giustizia”, “finanza etica”.

Se al potere politico si è contrapposto l’esercizio della cittadinanza attiva e al potere economico si è contrapposto l’esercizio del consumo critico, allo stato attuale delle cose la società civile non ha ancora maturato delle forme efficaci di lotta al potere dei grandi gruppi editoriali e mediatici che di fatto controllano la nostra “vita informativa”. Paradossalmente, grazie alla riflessione culturale sui meccanismi macroeconomici della globalizzazione, siamo in grado di capire il nesso tra la povertà dei contadini del sud del mondo e il nostro acquisto di una certa marca di caffè, mentre ancora ci sfugge il legame tra un editore che chiude bottega e il nostro acquisto di un certo tipo di giornali o di libri.

Sulle sigarette c’è giustamente scritto “nuoce gravemente alla salute”. Sui libri venduti al supermercato dovrebbe esserci scritto “nuoce gravemente alla salute degli editori che non hanno delle vendite così massicce da permettersi di vendere libri di trecento pagine a quattromila lire, per di più pagando il costo necessario per la distribuzione nei supermercati, nelle edicole e negli autogrill”.

Non esiste ancora un “consumo critico” di giornali e libri. Davanti a un casco di banane ormai abbiamo imparato a chiederci da dove vengono, che impatto ha la coltivazione delle banane sull’economia del paese da cui provengono, quali sono le condizioni di vita degli agricoltori che le coltivano, se il prezzo pagato ai produttori è sufficiente per una vita dignitosa, se le tecniche di coltivazione di quelle banane sono state rispettose dell’ambiente naturale. Di fronte a un libro non riusciamo neanche a chiederci chi finanziamo con l’acquisto di quel libro e che modello di sviluppo editoriale e informativo alimentiamo con il nostro acquisto.


Malgrado tutto, anche se con ritardo, un nuovo tipo di impegno civile sta iniziando a prendere forma, sviluppando nuove categorie di valutazione, nuovi strumenti culturali e nuovi contropoteri per bilanciare i “poteri forti” dell’informazione, dell’editoria e della televisione. E ‘ proprio a queste “forze nuove” che dovrebbe fare appello l’editoria “perdente”, spinta con un piede nella fossa dalle inesorabili leggi del mercato.

Un altro punto critico nel settore dell’informazione periodica è indubbiamente l’ambiguità del rapporto bifronte con i lettori e gli inserzionisti. Per i quotidiani italiani, il 1998 è stato l’anno di una svolta fondamentale, la cui importanza è stata direttamente proporzionale al silenzio e all’indifferenza con cui è stato accolto un dato tutt’altro che insignificante: la trasformazione dei quotidiani da beni di utilità sociale a beni di utilità economica. L’indice di questa trasformazione è stata la percentuale di ricavi editoriali legati all’attività pubblicitaria, che nel 1998, aumentando del 12% circa rispetto all’anno precedente, hanno raggiunto il 50,5% dei ricavi totali, superando per la prima volta i ricavi da vendita delle copie, che nello stesso anno sono diminuiti del 7% circa.

Senza che ce ne rendessimo conto, il valore principale dei nostri quotidiani è diventato la loro capacità di attrarre e indirizzare i consumatori attraverso la pubblicità, un valore che di fatto ha rimpiazzato il valore informativo e sociale che ancora oggi ci ostiniamo a voler attribuire alla stampa quotidiana.

Una tristissima conferma del primato acquisito dall’attività pubblicitaria dei quotidiani, ai danni del loro ruolo politico e informativo, è stato il coro unanime di annunci pubblicitari a tutta pagina con cui i quotidiani italiani, da Liberazione ad Avvenire, dal Manifesto alla Stampa, hanno dato la loro unanime benedizione alla privatizzazione di Finmeccanica, senza che nessuno abbia sollevato la benché minima obiezione morale su questa raccolta di capitali privati effettuata da uno dei colossi europei dell’industria delle armi, coinvolto su più fronti nell’esportazione di armi verso paesi repressivi o in conflitto.

Il nocciolo della questione non è tanto la pubblicità a Finmeccanica in sé, ma il fatto che la macchina pubblicitaria di Finmeccanica abbia incontrato sul suo percorso un mercato editoriale talmente disastrato da accettare ad occhi chiusi qualsiasi introito pubblicitario, anche se proveniente dal più grande mercante di armi del paese.

E ‘ ormai un dato di fatto che disponendo del denaro sufficiente si riesce a mettere d’accordo persino l’organo di informazione della Conferenza Episcopale Italiana con il giornale di partito di Rifondazione Comunista. In un mercato in cui tutti possono dire tutto, a patto di pagare abbastanza, è evidente come la differenza tra le posizioni e la linea politica dei diversi quotidiani sia diventata un fatto marginale rispetto al contesto economico e finanziario nel quale questi giornali sono costretti a barcamenarsi. In questo caso è difficile distinguere tra causa ed effetto. Non è ben chiaro se la natura dei giornali è diventata prevalentemente pubblicitaria a causa di una crisi dell’editoria o se la crisi di cui sopra non è altro che un effetto di questo spostamento del baricentro giornalistico verso gli introiti pubblicitari.

Quello che è certo, tuttavia, è che se nel breve periodo gli introiti pubblicitari percepiti da aziende simili a Finmeccanica possono rappresentare una boccata d’aria per un quotidiano, nel lungo periodo questa mancanza di differenziazione tra i quotidiani e l’appoggio pubblicitario ad aziende lontane dalle posizioni di una testata possono allontanare irrimediabilmente i lettori da un mezzo di informazione in cui non si riconoscono più.


Viene da chiedersi allora fino a quando i quotidiani potranno ancora rivendicare con fierezza il loro ruolo sociale e politico, nascondendo dietro un travestimento da “servizio pubblico” una natura sempre più orientata agli aspetti commerciali, economici e pubblicitari.

Parallelamente alla trasformazione dei giornali in “prodotti editoriali” assistiamo al dilagare dell’informazione telematica e alla nascita di nuovi modelli di informazione basati sulla comunicazione bidirezionale. Guardando in televisione i cartoni animati degli “Antenati” l’idea che i giornali dei primi cavernicoli fossero intagliati nella pietra ci fa sorridere, e non è da escludere che in un futuro non molto lontano l’idea di un giornale fatto solo da fogli di carta possa risultare altrettanto ridicola, così come oggi risulta ridicolo e anacronistico vedere che, a dispetto delle immense potenzialità offerte dalla telematica, moltissime edizioni “on-line” di quotidiani italiani non vanno al di là della semplice trasposizione elettronica dei contenuti già presenti sulla carta.

Nell’era delle reti globali, un quotidiano che sceglie di pubblicare su carta solo venti righe al giorno provenienti dai lettori, anziché facilitare e stimolare la loro partecipazione e l’incontro in uno spazio telematico condiviso, è un quotidiano che con le sue scelte editoriali sceglie di rimanere fuori dalla storia del suo tempo.

Quanti comunicati, quante lettere, quante segnalazioni, quanti articoli inviati alle redazioni dei nostri quotidiani avrebbero meritato di essere pubblicati on-line anziché essere giustiziate dalle impietose esigenze di spazio della versione cartacea di un quotidiano ?

Certo l’idea di trasformare un quotidiano in una cosiddetta “comunità virtuale” può spaventare, ma prima di essere un pezzo di carta, un quotidiano non è forse un “luogo culturale”, uno strumento che mi permette di costruire la mia cultura e la mia identità rapportandomi con gli altri ?

E allora, viene da chiedersi, cosa vieta che questa funzione non possa essere svolta anche da uno spazio informativo in rete per integrare, completare, approfondire e dibattere le informazioni pubblicate sulla carta?

Certo, aprire le redazioni dei giornali a milioni di sconosciuti che potenzialmente potrebbero aver voglia di interagire è un’idea che fa paura. Tuttavia, moltissime persone hanno ormai abbandonato il quotidiano come strumento privilegiato di informazione e preferiscono affidarsi all’interazione con altre persone in rete, per scambiare, produrre e allo stesso tempo analizzare informazioni condivise. Realisticamente, penso che aprire all’esterno la costruzione della versione on-line di un quotidiano possa essere un’esperienza molto meno traumatica e molto più efficace di quanto non si pensi.

Una delle possibili risposte alla crisi dei mezzi di informazione tradizionali è proprio l’ancoraggio a vecchi modelli di giornalismo, centralizzati e centrati sulla redazione anziché reticolari e partecipativi.


Se i quotidiani sono solo una cosa da giornalisti, allora solo i giornalisti dovrebbero leggere quotidiani. Fino a che punto è giustificata la paura di scatenare le “orde dei barbari” che aspettano di mettere le mani sul sito internet del nostro giornale ?

Come mai è così facile pubblicare una pagina web e allo stesso tempo così maledettamente difficile pubblicare una pagina web sul sito di un quotidiano nazionale ? La paura legata all’abbandono di vecchi schemi informativi fa perdere grandi opportunità di coinvolgimento dei lettori e annulla i vantaggi offerti dal mezzo elettronico, che non è vincolato dai limiti di spazio che caratterizzano le informazioni cartacee. Basta mettere il naso fuori dalla “trincea” della redazione per scoprire un’infinità di associazioni, movimenti e singole persone che ormai da anni producono in rete una grande quantità di informazione, ignorata dai media tradizionali, un patrimonio di risorse che all’interno di un “contenitore telematico” messo a disposizione da un grande quotidiano potrebbe essere molto più visibile e meglio organizzato, ma che allo stato attuale delle cose è solo una straordinaria opportunità che nessuno ancora vuole cogliere.

L’esperimento dell’Unità on-line ha scatenato delle energie devastanti, una capacità di autorganizzazione e diffusione militante di informazioni che fino a pochi giorni fa sembrava solo un lontano ricordo dei tempi del ciclostile. Come mai queste energie sono state ignorate e soffocate con la chiusura della versione elettronica della rivista ? Che cosa sarebbe diventata l’Unità on-line se ogni sezione del partito fosse diventata una mini-redazione del giornale elettronico ?

Un’altra grande minaccia alla sopravvivenza di molti organi di informazione è la resistenza ottusa alla decentralizzazione del potere informativo, un potere che grazie agli strumenti telematici, oggi non è più ad appannaggio dei soli giornalisti, ma è teoricamente in mano a chiunque voglia darsi da fare per produrre dell’informazione on-line.

Scegliere di ostacolare questo processo, anziché raccogliere la sfida rappresentata dai nuovi modi di fare informazione, può rivelarsi un vero e proprio “suicidio culturale” da parte di chi dovrebbe essere in prima linea nel promuovere la quantità e la qualità dei servizi informativi offerti in rete e fuori.

Alcuni grandi poteri, come la Chiesa Cattolica e la corporazione dei giornalisti, iniziano a temere la concorrenza delle attività di informazione on-line sviluppate liberamente da singoli cittadini, associazioni o altri organismi “non allineati”. “Internet, come ogni tecnica nuova, suscita, in parte, timori seri, purtroppo giustificati da un uso dannoso, anticulturale e anti-umano, e richiede una costante vigilanza e un’informazione seria”. Sono parole del cardinale Poupard, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura.

Un altro allarme sui possibili “danni” dell’informazione in rete è lanciato dalla corporazione dei giornalisti che, con paure analoghe a quelle della Chiesa Cattolica, teme di perdere il “controllo” su un media ormai diventato strategico.

Un primo segnale è stato lanciato nella scorsa primavera, nel corso della trattativa per il rinnovo del contratto nazionale, che ha visto come protagonisti i giornalisti, rappresentati dalla FNSI (Federazione Nazionale della Stampa Italiana) e la FIEG, la federazione italiana degli editori confindustriali.


Nella piattaforma contrattuale presentata dalla FNSI, il tentativo di riproporre anche in rete la distinzione tra i giornalisti e il resto del mondo è stato descritto come un modo per “garantire gli utenti” sulla titolarità e la fonte dei prodotti informativi telematici, che concretamente avverrebbe con l’introduzione di un “pressmark”, un “bollino blu” che avrebbe lo scopo di distinguere le informazioni “buone” prodotte dai giornalisti da quella che è stata definita la “generalità delle iniziative presenti sul mercato e nel sistema delle telecomunicazioni”.

Per mettere un freno alla produzione di informazione non omologata al sistema giornalistico è stata invocata anche la legge 249 del ’97, che obbliga (almeno in teoria) le “imprese fornitrici di servizi telematici e di telecomunicazioni” a iscriversi al “Registro degli operatori di comunicazione”, tenuto dall’autorità per le garanzie nelle comunicazioni, una pratica di schedatura che finora è stata semplicemente ignorata da chi avrebbe dovuto rispettarla e da chi avrebbe dovuto verificarne l’applicazione.

Anche l’Unione Cattolica Stampa Italiana (UCSI), per bocca di Paolo Scandaletti, ha affermato che “si dovrebbe intanto pretendere che i siti che diffondono informazione siano iscritti nei registri stampa dei tribunali, con dei responsabili, come le altre testate a stampa e radioteletrasmesse”. Un’affermazione tanto ambigua quanto preoccupante, dal momento che risulterebbe molto difficile individuare dei siti internet che non “diffondono informazione”, e che una norma di registrazione simile a quella invocata da Scandaletti sarebbe inevitabilmente troppo legata alla discrezionalità di chi dovrebbe farla applicare.

Scandaletti ha rincarato la dose anche dalle pagine di “Desk”, la rivista dell’UCSI. Nel numero di giugno 2000 si legge testualmente che “è certo impossibile il controllo della rete mondiale interconnessa. Ma se i singoli paesi esigessero, sulla falsariga del registro stampa istituito presso i tribunali italiani, un responsabile per i siti informativi, forse qualche progresso sarebbe possibile.”

A queste prime avvisaglie ha fatto seguito una vera e propria azione lobbistica, che ha tra i suoi principali protagonisti Franco Abruzzo, il presidente dell’ordine dei giornalisti della Lombardia. A novembre, Abruzzo ha partecipato ad una serie di incontri con il ministro della Giustizia Piero Fassino, assieme ai rappresentanti dell’Ordine dei Giornalisti, della Fnsi, della Fieg, della presidenza del Consiglio e dell’Ufficio del Garante della privacy, per discutere una serie di modifiche alla legge sulla stampa, tra cui il famigerato “obbligo di registrazione” per i siti internet.

Questo incontro è stato commentato dallo stesso Abruzzo nel corso di un convegno organizzato venerdì 17 novembre dal giornale di strada “Terre di Mezzo” e dalla rivista “Mondo e Missione”. La tesi sostenuta da Abruzzo è stata che anche le associazioni, i gruppi di volontariato, le associazioni no profit e i singoli cittadini intenzionati a produrre in maniera continuativa documenti e informazioni da diffondere in rete, dovrebbero registrare la propria “testata giornalistica” telematica e individuare un direttore responsabile iscritto all’albo dei giornalisti che sia il garante delle informazioni pubblicate sul sito.

Le teorie di Abruzzo si sono concretizzate in una vera e propria proposta di legge. Mentre sulle prime pagine dei giornali si celebra la “società dell’informazione”, la legge sulla stampa sta per essere modificata nel silenzio dei media. La proposta di legge Anedda (7292/2000), apparentemente dedicata al reato di diffamazione a mezzo stampa, contiene alcuni pericolosi emendamenti che potrebbero modificare la legge sulla stampa (47/1948) in senso fortemente repressivo, estendendo il reato di stampa clandestina a qualsiasi “periodico, anche se diffuso a mezzo di trasmissioni informatiche o telematiche, senza che sia stata eseguita la registrazione”.

Nella categoria di “periodico diffuso a mezzo di trasmissioni telematiche” potrebbe essere fatto rientrare a pieno titolo anche qualsiasi sito web aggiornato periodicamente, trasformando questa legge in un possibile grimaldello legislativo che renderebbe di fatto illegale qualsiasi forma di informazione telematica non registrata, imbavagliando i circuiti informativi e il giornalismo di base che costituiscono l’unica alternativa onesta alle grandi concentrazioni editoriali, televisive e mediatiche dei grandi colossi dell’informazione.


Ovviamente, le regole del buon senso suggeriranno ai nostri magistrati di non perseguire penalmente alcuni tipi di “periodici telematici”, ma può bastare affidarsi al “buon senso” di chi dovrebbe far applicare questa legge?

Un’altra ipocrisia insita nel meccanismo di assimilazione dei bollettini telematici alle testate giornalistiche è il fatto che questa equiparazione riguarderebbe unicamente l’accesso al “diritto di pubblicare” in rete, che si vorrebbe riservare unicamente ai giornalisti iscritti all’albo.

Questa equivalenza viene a cadere nel momento in cui si vogliono utilizzare gli articoli pubblicati in rete come documenti di prova per l’accesso all’ordine dei giornalisti. L’equivalenza che si vorrebbe stabilire vale solo in senso escludente, per impedire ai “non giornalisti” di realizzare siti informativi, ma non trova applicazione in senso inclusivo, per permettere l’accesso all’albo a persone che pubblicano articoli e realizzano attività giornalistiche in rete al di fuori dei circuiti della carta stampata.

L’associazione PeaceLink ha lanciato una campagna contro le modifiche alla legge sulla stampa, raccogliendo una serie di articoli, documenti e atti parlamentari all’indirizzo www.peacelink.it/censura , dove è presente anche un “Appello per la Libertà di Espressione, di Comunicazione e di
Informazione in rete”, che finora ha raccolto centinaia di adesioni.

L’appello è stato raccolto dal Consiglio Regionale della Toscana, che il 13 febbraio 2001 ha approvato all’unanimità una mozione in cui si chiede al Parlamento italiano “la promulgazione di una vera e propria legge di riforma del sistema informativo, nello spirito del dettato costituzionale, tale da incentivare e salvaguardare, stante il processo di radicale rinnovamento e adeguamento alle nuove esigenze telematiche ed informatiche, anche la produzione di informazione indipendente quale difesa del diritto di espressione”.

Alla luce delle osservazioni fatte finora, risulta chiaro come la crisi e il declino dei mezzi di informazione tradizionali non sia una crisi dell’editoria, del giornalismo o dei quotidiani in quanto tali, ma sia la crisi di un certo tipo di editoria, di giornalisti e di riviste.

Il declino non riguarda la lettura o la scrittura in sé, ma piuttosto i modelli di informazione adottati finora da un’editoria che ha dato il primato alla pubblicità sulle idee, da un giornalismo corporativo di casta e da giornali chiusi, autoreferenziali e totalmente impermeabili ai contributi esterni e alla bidirezionalità dei nuovi mezzi di comunicazione.

Se è così, allora ben venga la crisi.

Carlo Gubitosa

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Pubblicato il
10 mar 2001
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