UE: ecco perché non usiamo l'open source

UE: ecco perché non usiamo l'open source

L'insistenza del deputato europeo Marco Cappato fa il miracolo: i documenti perduti riaffiorano. Lo studio di fattibilità per lo sbarco del software OS a Bruxelles svela le cifre dell'impegno economico con Microsoft
L'insistenza del deputato europeo Marco Cappato fa il miracolo: i documenti perduti riaffiorano. Lo studio di fattibilità per lo sbarco del software OS a Bruxelles svela le cifre dell'impegno economico con Microsoft

“Alla fine (della legislatura) lo studio è arrivato”: è questa la conclusione che l’ onorevole Marco Cappato trae al termine della vicenda che l’ ha visto misurarsi con il Consiglio Europeo in materia di software open source e della sua adozione in seno alla UE . Lo studio a cui si riferisce è quello che a novembre 2008 sembrava fosse andato perduto, e che illustra i possibili scenari economici legati all’adozione di programmi OSS per le istituzioni continentali: numeri che sconsigliano l’adozione delle piattaforme a sorgenti aperti per l’intero ecosistema hardware europeo, alla luce delle ingenti spese da sostenere per una eventuale transizione al nuovo parco software.

Il documento che Punto Informatico ha potuto visionare si intitola Studio del gruppo di lavoro interistituzionale sulla fattibilità di una migrazione verso postazioni di lavoro OSS (2005) , e porta in calce la data del 10 gennaio 2009. I dati, a quanto si scorge da una prima lettura, sembrerebbero comunque fare riferimento ad un lavoro risalente al software disponibile e ai contratti in essere nel 2005 : da allora sono cambiati senz’altro gli scenari relativi alla disponibilità di software open source, così come i numeri in gioco per quanto riguarda numero di postazioni e licenze delle varie istituzioni europee.

Lo studio prende in esame tre diversi organismi: la Commissione europea, la Corte dei Conti e il Parlamento europeo , accreditati rispettivamente di 30mila, 800 e 12mila postazioni lavorative effettive per un numero di utenti stimato in 25mila nel caso della Commissione, 700 per la Corte, 7mila al Parlamento. Questi numeri, in particolare quelli del Parlamento, mostrano qualche discrepanza sul totale: una verifica incrociata, tuttavia, avrebbe escluso che ci siano errori sistematici nel calcolo dei costi necessari ad una eventuale migrazione, e dunque non dovrebbero invalidare l’intero studio.

Studio che, a quanto è dato di capire, tiene conto dei seguenti fattori: lo sviluppo di una nuova infrastruttura software su un modello web-based , il testing e l’adeguamento di queste nuove applicazioni allo standard di usabilità delle precedenti, la conversione del precedente parco software (che comprende essenzialmente documenti sviluppati in Access, Excel e Word con annesse macro), l’inventario dei prodotti software impiegati e il suo consolidamento, l’ampliamento delle strutture di supporto tecnico, l’integrazione di strumenti OSS già impiegati e sviluppati nel nuovo ecosistema.

Nello studio non figura il calcolo relativo alla conversione del sistema di messaggistica dell’Unione Europea, mentre figura quello relativo alla migrazione del browser di navigazione . I fattori di cui viene tenuto conto per valutare la convenienza della transizione sono tre: l’obsolescenza tecnologica della piattaforma in uso, il vantaggio in termini di TCO ( Total Cost of Ownership ), la superiorità tecnologica e funzionale. Le conclusioni sono le seguenti: “Sulla base dei risultati dello studio, si è ritenuto che nessuno di questi criteri sia stato raggiunto”.

Dal punto di vista tecnico, spiega lo studio, “l’attuale situazione è complessa poiché la configurazione delle postazioni di lavoro comprende una quarantina di software diversi: questi programmi sono sviluppati da Microsoft o per operare in un ambiente Microsoft, e formano un nucleo coerente e interconnesso”. Secondo le conclusioni, si può parlare di “sovrapposizione di strati di complessità”, che imporrebbero al software OSS che andasse a sostituire l’attuale software proprietario “una grossa mole di test per essere messo a punto”.

Ma è sul piano economico che le cose si fanno più dettagliate. Nella precedente risposta, il Consiglio aveva comunicato che la divulgazione delle informazioni sul valore dei contratti stipulati da Microsoft con l’Unione Europea avrebbe potuto “pregiudicare la protezione degli interessi commerciali di Microsoft, poiché questi contratti stabiliscono termini e condizioni specifiche e privilegiate per le Istituzioni UE”. Nello studio, invece, si legge una stima del valore annuale dell’impegno economico dell’Europa con BigM: 6,2 milioni di euro , necessari a coprire i costi delle licenze (almeno relativi all’anno 2005) per un totale di circa 45 mila postazioni. Poco meno di 138 euro a postazione.

Il costo del progetto di conversione stimato è di circa 54 milioni di euro per la Commissione Europea, di 3,5 milioni per la Corte dei Conti (ma le tabelle relative ai mesi/uomo indicano un valore di 12 milioni) e di 19 milioni per il Parlamento: un totale di 76,5 milioni, a cui sommare il costo necessario a coprire supporto e manutenzione del nuovo software open source pari a circa il 30 per cento dell’attuale spesa annuale per le licenze proprietarie (che evidentemente comprendono anche le voci relative all’assistenza). In queste condizioni, secondo le stime ci vorrebbero 36,7 anni per ammortizzare la spesa .

Cifre e tempistiche senza dubbio ingenti, che tuttavia la commissione interistituzionale tempera con una riflessione: “È chiaro che il potenziale interesse di questo progetto – si legge nel rapporto dell’aprile del 2005 – va inserito nel quadro politico/strategico. Consentirebbe infatti alle istituzioni di riappropriarsi del loro ambiente informatico e di evolversi verso una maggiore indipendenza. Si potrebbe argomentare che questo consentirebbe di effettuare le migliori scelte tecniche e commerciali, poiché se riuscissimo ad evitare la situazione di monopolio (lock-in) ci troveremmo nella migliore posizione negoziale per acquisire qualunque prodotto o tecnologia”.

La commissione interistituzionale, insomma, pone l’accento sulla possibilità di valutare l’investimento alla luce di una maggiore libertà futura dell’infrastruttura informatica europea e della sua scalabilità. Il rapporto si spinge anche oltre, tracciando le possibili tappe necessarie alla transizione alla nuova piattaforma open (tra gli altri la standardizzazione dei documenti al formato XML, la creazione di prototipi di postazioni di lavoro OSS per la valutazione, un censimento del software effettivamente in uso nelle istituzioni), nonché sollecitando la valutazione dell’effettivo rapporto tra costi e benefici in siti che abbiano già avviato una transizione simile. Dalle carte sembrerebbe tuttavia emergere uno studio approfondito dei costi, riferiti sia al totale esborso economico sia alle singole voci di costo (personale, formazione, sviluppo, valutazione etc), mentre non vi è traccia di questa eventuale valutazione di casi analoghi relativa ad istituzioni pubbliche che abbiano deciso di effettuare la transizione al software OSS.

La diffusione di queste informazioni a fine legislatura , infine, imporrà di attendere almeno l’inizio della prossima per sapere come l’Europa intenderà procedere nell’evoluzione della sua infrastruttura informatica: dal 2005 ad oggi, tra fusioni e battaglie di formati documentali , lo scenario del mercato è senz’altro mutato . Probabilmente occorrerà un nuovo studio per valutare se le conclusioni del 2005 restino valide ancora oggi.

Luca Annunziata

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Pubblicato il
15 mag 2009
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