Domini, Peacelink se la prende con Grauso

Domini, Peacelink se la prende con Grauso

In un appello di Carlo Gubitosa e Vittorio Moccia evidenziano tutti i problemi relativi alle norme sui domini italiani e al NIC e ritengono Grauso una minaccia per il no-profit
In un appello di Carlo Gubitosa e Vittorio Moccia evidenziano tutti i problemi relativi alle norme sui domini italiani e al NIC e ritengono Grauso una minaccia per il no-profit


Web (internet) – Da Peacelink è arrivato nelle scorse ore un “appello” contro “I padroni della Rete” per la tutela del “no-profit telematico”. Ecco di seguito il testo dei responsabili Peacelink Carlo Gubitosa e Vittorio Moccia:

“Con una operazione da 60 miliardi, nei mesi a cavallo tra il 1999 e il 2000, Nicola Grauso ha comprato mezzo milione di indirizzi internet, tra cui quelli corrispondenti a numerosi nomi e cognomi italiani. Questa operazione è stata possibile grazie alla deregulation avviata il 15 dicembre scorso dalla Registration Authority italiana, l’autorità che regola l’assegnazione dei “domini internet”. Con la normativa approvata dalla Registration Authority sono state autorizzate speculazioni commerciali su vasta scala simili a quella di Grauso, ma le associazioni di fatto e i singoli privi di partita iva non possono registrare più di un indirizzo internet. Da qui una campagna “Per la tutela del no-profit in rete”.

Già nel 1994, il libro “Comunità Virtuali” di Howard Reingold ha denunciato il rischio di una deriva commerciale della comunicazione in rete: “Se le organizzazioni commerciali assumono la gestione della Rete dalle istituzioni pubbliche, chi vi avrà accesso e a chi sarà negato?” – si chiedeva Rheingold nel suo libro – “Chi deciderà che cosa potranno dire e fare gli utenti della Rete? Chi farà da giudice in caso di disaccordo sul diritto di accesso o sul comportamento telematico? Questa tecnologia è stata sviluppata con denaro pubblico. Deve esserci un limite alle tariffe che le aziende private possono praticarci in futuro per farci pagare l’utilizzo di una tecnologia nata e sviluppata con il denaro delle nostre tasse? (…) Ci sono buone probabilità che i grandi centri di potere politico ed economico trovino il modo di mettere le mani anche sulle comunità virtuali, come è sempre accaduto in passato e via via con i nuovi mezzi di comunicazione. La rete è ancora in una condizione di autonomia, ma non può rimanervi a lungo. È importante quello che sappiamo e facciamo ORA, perché è ancora possibile che i cittadini del mondo riescano a far sì che questo nuovo, vitale strumento di dibattito resti accessibile a tutti prima che i colossi economici e politici se ne approprino, lo censurino, ci mettano il tassametro e ce lo rivendano. (…) Forse in futuro gli anni Novanta verranno considerati il momento storico in cui la gente è riuscita, o non è riuscita, a cogliere la possibilità di controllo sulle tecnologie comunicative”.

Il “popolo delle reti”, tuttavia, ha finora confidato nella natura anarchica e libertaria della rete, e nella capacità di autoregolamentazione delle autorità preposte al controllo e alla gestione delle infrastrutture di rete. La “profezia” di Rheingold è rimasta così lettera morta fino al marzo 1998, quando per la prima volta una grossa multinazionale tedesca ha deciso di esercitare una indebita ingerenza sulle attività telematiche di una associazione italiana di volontariato.

Si tratta della “Metro Commerciale Spa”, a cui fanno capo, tra l’altro, i negozi della catena Vobis , una multinazionale che ha ritenuto opportuno negare all’associazione culturale telematica “Metro Olografix”, con sede a Pescara, l’utilizzo del dominio www.metro.it, regolarmente registrato con le opportune procedure. Legalmente, almeno in teoria, l’associazione avrebbe potuto far valere i suoi diritti, ma solamente sostenendo le ingenti spese legali necessarie per arrivare a una sentenza definitiva. Una operazione che avrebbe richiesto diversi anni di logorante attesa, dal momento che la Metro Spa aveva tutto l’interesse e le possibilità economiche di trascinare la questione il più a lungo possibile.

Con le attuali regolamentazioni in merito all’assegnazione degli indirizzi internet, nel nostro paese il diritto di utilizzare l’indirizzo “metro.it” non spetta a singoli cittadini di cognome “metro”, né tantomeno all’ente che stabilisce le unità di misura, tra cui il metro, ma è di fatto attribuito alla Metro Commerciale SPA, l’unica organizzazione in grado di poter dimostrare questo diritto a colpi di milioni, con un allenato commando di avvocati. L’equivalente telematico della legge della giungla.

Questo tipo di controversie è stato analizzato in dettaglio nel 1998, con uno studio realizzato da Milton Mueller, direttore del Corso di Laurea in Telecomunicazioni e Network Management della Syracuse University School nello stato di New York.

“La nostra conclusione è che i giudici spesso applicano male la legge, a causa di una incomprensione della natura dei nomi di dominio e delle loro caratteristiche economiche e tecniche”, afferma Mueller. “Un altro problema è che i proprietari di marchi registrati sono il più delle volte entità grandi e potenti, che hanno a portata di mano abbondanti risorse legali, mentre i loro avversari sono piccoli, senza esperienza e relativamente poveri. I possessori di marchi registrati hanno potuto reclamare diritti di proprietà sui nomi di dominio che sono andati oltre i diritti che hanno con la legislazione attuale”.

Mueller ha studiato 121 controversie arrivate in tribunale, distinguendo tra reali violazioni di marchi registrati, speculazioni sui nomi di dominio (cybersquatting), conflitti tra compagnie con lo stesso nome e altri di carattere politico. Il risultato della ricerca ha messo in evidenza come l’ambito giuridico dei domini internet non sia lo stesso dei marchi registrati, nonostante alcuni conflitti giuridici siano effettivamente ricaduti in questa sfera.

La conclusione è che la maggioranza dei casi non ricadono in nessuna normativa attuale, e che il risultato di questo vuoto legislativo è stato uno spostamento del potere legale verso le corporazioni più grandi e con i migliori staff legali estendo anche al “cyberspazio” i diritti relativi ai marchi registrati.


Ma il potere dei grandi gruppi economici non si limita alla possibilità di estendere alla rete le regole valide per i marchi registrati: anche le regole recentemente approvate nel nostro paese per l’assegnazione degli indirizzi internet hanno modificato i “rapporti di forza” all’interno della rete a tutto vantaggio dei soggetti economici.

Fino al 15 dicembre scorso, infatti, la normativa vigente consentiva la registrazione di un solo indirizzo internet, e le sole organizzazioni autorizzate alla registrazione erano i soggetti economici provvisti di partita IVA, le associazioni di fatto e le associazioni dotate di partita IVA o codice fiscale. Ai singoli cittadini privi di partita iva era negata qualunque possibilità di registrazione.

Il “ribaltone” delle regole del gioco è avvenuto il 15 dicembre scorso, con una liberalizzazione dei domini italiani promossa dalla Naming Authority (l’organismo che stabilisce le regole di registrazione dei nomi associati agl indirizzi internet). Una manovra che ha di fatto favorito unicamente i possessori di Partita IVA, ovvero le attività commerciali che nei mesi scorsi avevano chiesto a gran voce una “deregulation” nelle procedure di registrazione.

Con una liberalizzazione indiscriminata e discriminante, la Naming Authorithy ha stabilito che le “associazioni di fatto” di cittadini ed i “privati cittadini” sono da considerarsi una categoria di serie B rispetto a chi svolga attivita’ commerciali, lasciando in tal modo mano libera ai “falchi” dotati di partita IVA.

Le nuove norme approvate dalla Naming Authority prevedono che i singoli cittadini sprovvisti di partita iva e le cosiddette “associazioni di fatto” (semplici gruppi di cittadini privi di Partita IVA o codice fiscale) possano registrare un solo indirizzo, mentre per le aziende, le associazioni o i privati dotati di partita iva questa limitazione non esiste. La partita Iva, dunque, è diventata l’unica discriminante in base alla quale stabilire se un soggetto ha diritto alla registrazione di un unico indirizzo o può registrare a suo nome un numero illimitato di indirizzi internet.

Attualmente per i possessori di partita IVA non vi sono più vincoli, se non l’impossibilità di registrare domini con nomi di luoghi geografici; chi arriva prima, pertanto, può accaparrarsi ciò che trova libero. Come se non bastasse, per non “ostacolare” il lavoro della Registration Authorithy italiana, l’ente nazionale preposto alla registrazione degli indirizzi internet, dal 15 dicembre al 15 gennaio alle associazioni di fatto è stata bloccata la possibilità di registrare domini .it, in modo da consentire alla Registration Authorithy di smaltire più comodamente il fiume di richieste di registrazioni commerciali pervenute dopo la liberalizzazione.

Ai privati cittadini è stata negata, al pari delle associazioni di fatto, la possibilità di registrare il proprio dominio fino al 15 gennaio, e nonostante nostre svariate sollecitazioni non è stata introdotta nel nuovo regolamento della Naming Authorithy nessuna norma che dissuadesse gli accaparratori di domini (i famosi “squatters”) dal fare incetta selvaggia di nomi altrui.

Un vuoto legislativo che nei mesi scorsi ha permesso a Nicola Grauso di registrare ben mezzo milione di indirizzi internet attraverso una rete di società controllate, una pratica chiamata in gergo “cybersquatting”, che si traduce in un vero e proprio “sequestro di persona virtuale”. Se il signor mario rossi vorrà in futuro utilizzare l’indirizzo www.mariorossi.it dovrà “pagare il riscatto” per liberare questo indirizzo internet “sequestrato” dal signor Grauso. “il minimo che potremo fare con questi domini sarà vendere a ciascun ‘mario rossi’ un indirizzo di posta elettronica personalizzato” ha affermato lo stesso Grauso in una intervista rilasciata il 17 febbraio a “Punto Informatico”.

Grauso ha operato, tramite la Poli srl, una vera e propria incetta di indirizzi internet associati a nomi e cognomi dei cittadini italiani, approfittando sia del “buco” di 30 giorni dal 15 dicembre al 15 gennaio, sia dell’illimitato numero di domini registrabili per i possessori di partita IVA. Una operazione commerciale che ha di fatto impedito a molti liberi cittadini di registrare per il futuro il proprio nome sotto forma di “dominio internet”.

Su questa vicenda è addirittura intervenuta la Presidenza del Consiglio dei Ministri, con una raccomandazione del 25 gennaio, con cui si chiedeva di “limitare al massimo le registrazioni ai casi in cui sia provato il titolo all’uso di quello specifico nomecognome.it da parte del richiedente”, una raccomandazione nata presumibilmente sotto l’effetto di una esternazione del sottosegretario all’Innovazione Stefano Passigli, che si era lamentato della registrazione del dominio stefanopassigli.it rivendicandone la disponibilità.

Tuttavia questo tipo di questioni è ancora ben lontano dall’essere risolto: ad esempio, a quale dei vari Stefano Passigli in Italia va attribuito il “titolo all’uso” di quel dominio?


Sulla scia dell’iniziativa di Grauso, fiutando l’affare dei “domini internet” (strumenti indispensabili per la visibilità in rete delle aziende), una schiera di operatori commerciali ha lettereralmente paralizzato l’attività dell’ente nazionale di registrazione italiano, inondandolo di sacchi postali e di fax di richieste (in Italia infatti, per registrare domini, è necessario sottoscrivere, da parte del registrante, una lettera di assunzione di responsabilità da inviare all’ente di registrazione).

In questa aberrante logica del profitto a tutti i costi, nella quale si vengono a prefigurare maggiori diritti di taluni cittadini a discapito di altri, sembra svanire ogni rispetto e considerazione per la cultura, per l’associazionismo non profit, realtà che fino ad ora hanno conferito alla rete il vero valore aggiunto in termini di contenuto ed utilità sociale. La Registration Authority non ha finora favorito in alcun modo l’associazionismo non profit culturale e di volontariato, cosa che avrebbe potuto fare tramite agevolazioni economiche sul costo dei domini.

Inoltre, imponendo modalità di pagamento dei domini e politiche dei prezzi contorte e vetuste, ha nella pratica impedito ai cittadini deboli di registrare domini direttamente presso l’ente stesso, costringendoli a rivolgersi ai provider Maintainer: questi ultimi stabiliscono, con totale potere di arbitrio, il prezzo finale dei domini, a loro venduti dalla Registration, ad un prezzo relativamente basso.

E’ ancora tutta da giocare la “battaglia” per affermare anche in rete la parità di diritti tra persone prive di partita iva e soggetti economici, una battaglia che l’operazione eclatante di Grauso ha messo in evidenza solo oggi, ma che ha avuto inizio nel 1998, quando l’associazione di volontariato dell’informazione “PeaceLink”, ha lanciato la campagna “per la tutela del no-profit in rete”, con l’obiettivo di tutelare i privati e le associazioni di volontariato che rischiano di essere penalizzate dall’attuale regolamentazione in materia di assegnazione degli indirizzi internet.

Lo scopo di questa campagna è l’approvazione di nuove regole per la registrazione di nomi di dominio, in maniera da mettere sullo stesso piano giuridico tutti i cittadini, indipendentemente dal fatto di possedere o meno una partita iva. I promotori della campagna ritengono inoltre che per uno sviluppo equilibrato e pluralista della rete sia importante l’affermazione del carattere di ente pubblico della “Registration Authority” (RA), che sovraintende all’assegnazione dei nomi di domino. La RA, infatti, in quanto emanazione del CNR (ente a finanziamento pubblico), è essa stessa un ente a carattere pubblico, e in quanto tale avrebbe, almeno in teoria, il dovere di garantire e tutelare in rete la crescita di inizative culturali ed in particolare l’associazionismo no-profit con finalità di volontariato o umanitarie, assicurando, ad esempio, la registrazione gratuita dei nomi di dominio alle associazioni.

Purtroppo la realtà delle cose è ancora ben lontana dalla teoria, e attualmente le “Authority” italiane somigliano molto di più ad una struttura privata che ad un servizio pubblico. A conferma di ciò va detto che lo statuto della Naming Authority non prevede attualmente alcuna presenza obbligatoria di rappresentanti di Enti pubblici, reti civiche o associazioni nel comitato esecutivo di questo organismo.

Il 4 luglio 1999 l’associazione PeaceLink aveva lanciato un appello ai responsabili della Naming Authority: “(…) abbiamo denunciato pubblicamente e più volte la propensione commerciale mostrata da almeno due anni dalla Registration Authority. L’ente suddetto si occupa della registrazione dei domini internet italiani, e, nonostante la sua forte connotazione pubblica, ha, a nostro avviso, più volte calpestato il diritto alla visibilità in rete dei gruppi deboli, il non profit associazionistico e culturale. (…) Troviamo estremamente ingiuste discriminazioni dei cittadini basate sulla “partita iva”; riteniamo doverosa la tutela delle entità deboli della rete Internet (associazioni non profit, gruppi culturali, etc); ci sorprendiamo nel constatare che perfino agli enti pubblici venga riservato dalla Naming Authority un trattamento di serie B”. Un appello reso ancora più attuale e urgente dall’approvazione di queste nuove regole, o meglio di questa nuova assenza di regole.

Queste vicende confermano ancora di più le paure di quanti temevano una trasformazione dell’informazione telematica e dell’internet in una piattaforma commerciale globale. E ‘ l’evidente segnale di un impoverimento culturale che tende a far diventare la Rete un imponente ipermercato telematico, segnandone il passaggio da strumento di interazione attiva e partecipativa, a nuovo televisore multimediale, tramite il quale l’attività del cittadino si riduca alla semplice scelta del prodotto da acquistare sul mega portale del momento.

La spregiudicata operazione commerciale di Grauso può essere a questo punto una buona occasione per rilanciare una forte campagna “per la tutela del no-profit in rete”, un punto di partenza per l’affermazione di nuovi diritti che rendano i cittadini uguali tra loro, non solo di fronte alla legge, ma anche di fronte allo schermo del computer, e indipendentemente dalla loro partita IVA.

Carlo Gubitosa
(Segretario Associazione PeaceLink)

Vittorio Moccia
(Responsabile campagna sulla tutela del non profit in rete)

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Pubblicato il
25 feb 2000
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