Beccaria e il diritto d'autore nell'era digitale

Beccaria e il diritto d'autore nell'era digitale

di Michele Favara Pedarsi - Per mettere in luce le storture dell'EUCD, dei bollini, della crociata anti-pirateria si può ricorrere ad un pensiero che ha illuminato il diritto. Dei delitti, delle pene e del volere delle persone
di Michele Favara Pedarsi - Per mettere in luce le storture dell'EUCD, dei bollini, della crociata anti-pirateria si può ricorrere ad un pensiero che ha illuminato il diritto. Dei delitti, delle pene e del volere delle persone


Roma – 200 anni fa un filosofo concludeva la sua opera così: “Perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, dev’essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata à delitti, dettata dalle leggi.”

Nei giorni scorsi ho seguito con attenzione il dibattito nato dalla nuova legge che recepisce la direttiva europea sul diritto d’autore. In particolare, per esigenze di semplicità e brevità, mi riferirò principalmente all’industria musicale, fermo restando che è possibile effettuare ampi parallelismi non solo con l’industria musicale, cinematografica e l’editoria, ma anche con le moderne vicende giudiziarie nazionali ed internazionali.

In realtà il dibattito su questa legge è materia vecchia, vecchia quanto la battaglia legale in cui la RIAA (e le sue analoghe europee) sta sistematicamente distruggendo il volere delle persone . Parlo di volere delle persone e non di pirateria perché dati di fatto come i 50 milioni di utenti raggiunti da Napster, i milioni di cd pirata acquistati, il comunque enorme fermento intorno ai sistemi peer-to-peer, lo stesso calo delle vendite, sottintendono la presenza di una volontà univoca delle masse: avere prodotti di qualità ed ad un prezzo accessibile. La pirateria invece, che in piccole dosi non solo è fisiologica ma anche positiva al mercato , sembra non essere intaccata dal lavoro straordinario portato avanti da parlamenti e tribunali: i sistemi peer-to-peer nascono e crescono a ritmi incalzanti, spesso su isole dove le toghe non possono arrivare o con artifici tecnologici contro cui la polizia del ventunesimo secolo non può muoversi agilmente ; le persone, un po’ indispettite dai cd che non sono più Compact Disc ma loro derivati che integrano tecnologie di protezione dei contenuti e quindi spesso non fruibili nel cd della macchina o sul computer in salotto , un po’ oppresse dai prezzi eccessivi e dalla naturale necessità di musica, fiction e software, sembrano invogliate a non comprare più quei prodotti tramite i canali ufficiali.

Ed il dibattito assume sempre la stessa forma: da un lato i presunti detentori dei diritti d’autore che si lamentano del mancato riconoscimento dei proventi nati dalle opere, dall’altro i consumatori che chiedono a gran voce prodotti di qualità e facilmente accessibili.

Ho parlato di detentori presunti perché nei dibattiti non compaiono mai gli artisti, ma i loro produttori e le società poste a mantenere i privilegi di questi ultimi secondo una delega che implicita od esplicita, comunque da dimostrare e, se esistente, molto vecchia, non dovrebbe autorizzare queste associazioni a controllare il 90%-100% dei proventi del diritto d’autore: si parla di percentuali che difficilmente troviamo al di fuori del mondo dell’usura, universalmente riconosciuta come ennesima piaga sociale. Come ci disse Lubrano in una vecchia trasmissione gli autori percepiscono tra il 3% ed il 6% del prezzo di un cd musicale, ed ancora i proventi derivati dalle sempre più ricorrenti battaglie legali che dovrebbero servire a coprire i danni subiti dagli artisti, non arrivano a questi ultimi ma si fermano alle società che si prefiggono di tutelarli. Ma gli esempi sono presenti in quantità tale da renderli difficilmente numerabili, figuriamoci se addirittura documentabili in questa sede.

Mi sento allora autorizzato a rilevare come in questo dibattito tra consumatori e detentori dei diritti d’autore, una delle due parti risulti per lo meno latitante: i reali e soli detentori del diritto d’autore, gli artisti. E già questo è un vizio di forma talmente grande da far cadere tutti i presupposti affinché il dibattito sia formalmente autorevole ma soprattutto praticamente utile. Andrebbero prima di tutto chiariti posizione e diritti (non privilegi) della SIAE, dell’IFPI, della FIMI, della BSA, della RIAA, della MPAA, di tutte, tante, troppe, altre associazioni analoghe e di tutti gli outsider come dirittodautore.it che in genere si trovano allineati con esse trascurando ancora una volta le necessità degli individui, ovvero i fruitori delle opere d’arte.

Evidenziato quindi questo vizio di forma che mi piacerebbe veder risolto quanto prima, penso sia utile ragionare per trovare dei punti d’incontro su cui lavorare, piuttosto che continuare con giochi di forza il cui effetto è solo quello di accrescere la già alta tensione sociale. Per ragionare, in questa sede, voglio ricordare il pensiero di un italiano illustre; italiano che già al tempo, lontano dalla Chiesa che aveva incluso alcune sue opere tra le pubblicazioni proibite, vide riconosciuto il suo genio ed il suo diritto d’autore all’estero, da Parigi a Mosca, più che in Italia: Cesare Beccaria.


Il marchese Cesare Beccaria, laureato in legge, con l’intento di evidenziare i difetti della legge a lui contemporanea, scrisse, tra le altre cose, “Dei delitti e delle pene” .
Riprendendo il pensiero di J. J. Rousseau, Montesquieu e Locke, affermò che l’uomo, accettando le regole della comunità, aveva di comune accordo sacrificato alcune libertà (come quella di poter uccidere arbitrariamente un altro uomo) per trarne dei diritti (come quello di non essere ucciso arbitrariamente da un altro uomo), il tutto nel nome del bene comune e di una maggiore efficienza della società. Continuò affermando che lo Stato è quindi autorevole fino a quando le leggi non oltrepassano i limiti liberamente accettati dai cittadini nel nome del bene comune (che, credo sia importante far presente, non solo significa il bene di tutti, ma anche e soprattutto un maggiore bene individuale).
Ed ancora, di conseguenza, afferma che una qualsiasi pena non derivante da una necessità, sia assimilabile ad un’imposizione tirannica perché il potere sovrano ha diritto di punire, ma deve punire per tutelare la libertà ed il benessere pubblico: salvaguardare i governati dalle usurpazioni particolari per perseguire l’utile sociale.

Tornando a noi: quale sarebbe dunque l’utile sociale? Io direi che l’optimum sarebbe di fornire ai consumatori un prodotto facilmente fruibile per costi e modalità ed al contempo riconoscere all’autore il genio che lo ha portato a creare un’opera di valore.

Questa è solo la premessa; la vera forza del pensiero del filosofo milanese, per altro attualissimo e freddo, del pensiero di Cesare Beccaria è nelle proposte; tra queste vediamone alcune che permettono di guardare alla nuova EUCD da un ulteriore punto di vista.

L’esistenza di numerose fabbriche di prodotti contraffatti e dei sistemi di scambio evoluti, ed un costo elevato della musica, pone lo Stato in condizione di assoluta necessità di salvaguardare il benessere di autori e consumatori ed allo stesso tempo di comminare delle pene per i continui illeciti che si verificano dentro e fuori la rete. Una nuova azione in tal senso era quindi necessaria, e su questo eravamo già tutti d’accordo senza scomodare un filosofo; ma siamo sicuri che una legge ad hoc è la migliore risposta a questa assoluta necessità? Non era sufficiente applicare le leggi già esistenti secondo le quali un uso che genera profitto, di materiale protetto dal diritto d’autore, è comprensibilmente punibile?

L’illuminato C. Beccaria ci dice che la prima cosa importante, oggi data per scontata da molti, è di avere leggi chiare, perché leggi oscure sono il focolaio di interpretazioni variegate inevitabilmente arbitrarie e cause prime di abusi. Ma i già grandi dubbi sulla SIAE , uniti alla nuova gabella che si configura come pena, pena delineata in maniera arbitraria , applicata a tutti ed indipendentemente dall’uso che si faccia del dispositivo, e senza sapere quali saranno i beneficiari degli oneri sostenuti dai consumatori, rendono tutta la questione più che oscura.


Secondo punto la necessità che la pena sia certa, il vero ed unico deterrente concreto: chi ha una colpa, avrà sicuramente una pena. Che la pena sia tempestiva, perché il cittadino deve comprendere lo stretto legame tra colpa e pena e perché una persona cambia negli anni e dopo molto tempo si condanna una persona completamente diversa da quella che ha commesso il reato. Ed ancora la necessità di una pena mite, perché una pena eccessiva diventa un’imposizione tirannica ma soprattutto perde ogni valore di deterrente.
La pena non è certa per i fabbricanti di copie illegali che continuano la loro produzione ed inoltre, con una pena estesa a tutti indiscriminatamente, nella mente dei governati il legame tra colpa e pena viene pericolosamente indebolito e confuso.

La pena non è tempestiva, perché non vi è una colpa e quindi veniamo tutti puniti addirittura senza compiere il fatto: una sorta di Peccato sull’Originale che ci perseguita di generazione in generazione, di copia in copia.
La pena non solo non è mite perché la colpa è inesistente, ma è anche una tortura: paghiamo con uno stillicidio continuo che andrà avanti, oltretutto, a tempo indeterminato.
Con una legge sola si è violata tutta la filosofia di Cesare Beccarla e si è minato, ancora una volta, il buon senso.

Ma la cosa a mio parere più grave è che invece di punire un’ usurpazione particolare , se ne è creata un’altra punendo chi non ha colpa ed il colpevole di questa usurpazione è lo stesso Stato, quello cioè che è nato per proteggere il benessere dei governati, quello stato che così facendo perde parte della sua autorità.

Io vedo l’EUCD come l’ennesimo tentativo fallito dello Stato di arginare un problema andando ad appesantire le pene piuttosto che applicare quelle già definite e di contro avrei preferito una legge che tassasse le case discografiche per pagare le notevoli ed efficaci operazioni che la Guardia Di Finanza sta portando avanti da mesi ai danni delle centrali di produzione di copie illegali.

Sento inoltre l’irresistibile desiderio di riflettere su un’altra cosa che può essere definita come contraffazione: l’industria musicale.


Oggi infatti buona parte della musica che viene prodotta è frutto di un processo industriale. Si inizia con psicologi che studiano i fenomeni di successo e la società, ed in base ai tratti fondamentali delineati da questi professionisti, si selezionano le persone che dovranno apparire in pubblico.

Dopodiché, con lo stesso meccanismo di studio sistematico delle mode e dei costumi, si creano delle leggende (abitudini inconsuete, storie d’amore, look & feel e quanto altro sia necessario) da attribuire a queste persone.
Nel frattempo un compositore scrive un pezzo, qualcun altro seleziona la voce, altri ancora suonano il pezzo per il proprio strumento (quando necessario), si assembla il tutto in un laboratorio spesso senza che gli esecutori si siano mai visti e si catapulta il personaggio creato sul palco per muovere la bocca mentre la voce (od una registrazione) viene mandata negli impianti audio.

Ci sono molte varianti alla mia esemplificazione poc’anzi esposta, ma voleva essere un mero esempio di quello che la tecnologia, sospinta dalle necessità economiche, permette di fare in campo musicale.

Le vendite calano perché il consumatore non acquista un compact disc posticcio (perché non standard), pagandolo una frazione consistente dello stipendio medio italiano, per ascoltare un’opera d’arte che nasce da tutto tranne che dal sentimento, l’estro, l’ispirazione che muove la sensibilità dell’artista, la naturale interazione tra i componenti di un gruppo, l’amore per il proprio strumento, le ore davanti ad un foglio bianco, ovvero quegli elementi che rendono il prodotto un pezzo d’arte da salvaguardare.

Stato, vuoi veramente biasimare il consumatore? Presidente della Repubblica Italiana, lei, garante primo del benessere dei cittadini, ha idea di quale sia la differenza tra un opera classica suonata da un’orchestra in un auditorium e la stessa opera, suonata in differita dai vari strumenti poi assemblati in un laboratorio ed incisi su un cd senza nemmeno la necessità di un direttore d’orchestra?

La musica industriale non è arte o comunque non è d’autore.

Se consideriamo la musica un pezzo d’arte, un’opera d’ingegno, un qualcosa quindi da tutelare con il diritto d’autore, dobbiamo punire chi crea musica contraffatta con un processo industriale oltre a chi, con un processo analogo, crea contraffazioni dei pezzi d’autore.

Di questa contraffazione, non vi è traccia nell’EUCD né in tutta la legislazione moderna, né tra i lamenti che l’industria musicale produce in seguito al calo delle vendite. Oltretutto, creare musica dal nulla secondo le logiche di mercato piuttosto che favorire e supportare nuovi artisti mossi dalla passione, è d’intralcio alla nascita di nuovi grandi artisti che hanno bisogno di tempo per maturare ed arrivare a produrre economicamente qualcosa di appetibile per la casa discografica.

Mi riesce difficile immaginare un nuovo De Andrè od un nuovo Vasco? artisti che dopo un esordio economicamente scarso, sono state delle vere e proprie miniere d’oro per i produttori che hanno creduto nell’artista fin dai suoi primi passi. I Pink Floyd hanno avuto un album (lo stesso album) nelle classifiche internazionali per 16 anni, oggi a questi si stanno sostituendo una miriade di artisti (o presunti tali) che hanno una vita artistica media di un album ed un album dura una stagione, quasi fosse un fiore d’agave: alto ed appariscente ma presagio di morte. E, come se non bastasse, permangono le problematiche legate al costo delle opere per i consumatori ed il misero compenso degli artisti.

A questo punto, messo da parte Cesare Beccaria, che in questo contesto evidentemente non è stato contemplato, in me rimangono forti dubbi: se il consumatore paga tanto e gli artisti percepiscono poco, quel tanto a cui è stato sottratto quel poco , dove va a finire?

In un epoca dove anche il più piccolo avvenimento fa il giro del mondo in poche ore (complici Internet, i satelliti ed una mobilità generale elevata, epidemie permettendo), c’è ancora necessità di case discografiche che permettano all’artista di incontrarsi con il pubblico?

Se artisti e pubblico sono le due componenti fondamentali affinché vi sia musica, dove possiamo tagliare costi affinché tutti i milioni di comuni mortali siano rimessi in condizione di poter acquistare musica nell’intento di soddisfare quella bellissima frase presente, ad esempio, nella costituzione degli Stati Uniti d’America secondo la quale il primo diritto dell’uomo è di essere felice?

Se tagliassimo i costi legati alle spese legali, alle contro-misure elettroniche, al sostentamento delle innumerevoli associazioni proteggi-major, alla costruzione industriale di falsi artisti, agli eccessi di marketing, a buona parte della catena distributiva, riusciremmo a far costare un cd 10 euro piuttosto che 25 e fornire così ai consumatori un’alternativa ai venditori ambulanti di copie illegali?


Per farla breve, credo che queste case discografiche, di cui il mondo non ha più assoluta necessità , siano la vera piaga della musica, una piaga degna della letteratura tolkeniana; il Sauron delle 5 Terre nel regno del quale i soldi dei consumatori si perdono ed arrivano agli artisti solo in piccola parte. Quel signore oscuro produttore di mostri: le costosissime quanto inutili protezioni anticopia, le battaglie legali contro sistemoni scambia file la cui unica colpa è di aver dato alla luce uno strumento (non i contenuti) che fa felici i comuni mortali e le battaglie contro chi, come mp3.com, ha fornito a molti artisti veri per vocazione la possibilità di essere conosciuti senza pagare tributi.

Quel signore oscuro, padre dell’unico anello destinato ad ammansire tutti i poteri in tutte le terre: legislativo, esecutivo e giudiziario. Quel signore oggi colpevole non solo di produrre musica con un processo poco vicino all’arte e di spacciarla come tale, ma anche di produrre nuove usurpazioni e di trascinare in questo abisso di malcontento anche la Torre, i parlamenti di tutto il mondo da cui come per magia viene mantenuto l’equilibrio tra le forze della democrazia ed il caos.

In altre parole, ridimensionando sensibilmente le case discografiche ed i loro lacchè togati si potrebbe distribuire la musica sfruttando le nuove tecnologie, dando alle persone una possibilità concreta di avere la musica a costi sostenibili ad ogni angolo di strada o direttamente in casa propria, facendo così concorrenza ai venditori ambulanti di materiale illegale, dando spazio e riconoscimenti maggiori al vero artista scelto e richiesto dal pubblico ed evitando che lo Stato, altra vittima illustre di questo dibattito, venga trascinato al centro delle polemiche dei propri cittadini.

Forse è ora che consumatori ed artisti mettano insieme i propri sforzi per realizzare tutto questo, magari con la complicità di un alleato importante: Steve Jobs

Michele Favara Pedarsi

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Pubblicato il
13 giu 2003
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