SIAE, dieci risposte alle dieci domande

SIAE, dieci risposte alle dieci domande

di G. Scorza - Un perché per ogni perché sollevato dalla SIAE. Nella speranza di aprire un dibattito su questioni che ora sono veramente cruciali
di G. Scorza - Un perché per ogni perché sollevato dalla SIAE. Nella speranza di aprire un dibattito su questioni che ora sono veramente cruciali

Rassomigliano alle domande di certi telequiz della tradizione televisiva nostrana le dieci domande che la SIAE ha posto nei giorni scorsi attraverso il proprio sito, sulla sua neonata pagina Facebook e sui giornali italiani.
“Perché se fuori dalla Rete rubare è reato, in Rete dovrebbe essere lecito?”, “Perché chi è contro la pena di morte, poi chiede pene esemplari per pedofili, stupratori e pluriomicida?”, “Come si fa a difendere chi sfrutta il lavoro altrui?”, “Perché chi se la prende con tasse ingiuste non protesta con altrettanta determinazione contro le tariffe troppo alte dei professionisti?” È questo il tenore delle domande poste dalla SIAE e Confindustria Cultura agli italiani. Domande retoriche, poco stimolanti sul piano culturale e giuridico, domande soprattutto che non aggiungono assolutamente nulla al dibattito sulla tutela del diritto d’autore in Rete in Italia e nel resto del mondo.

Se il livello di conoscenza del fenomeno della circolazione dei contenuti digitali online della SIAE, di Confindustria Cultura e delle decine e decine di firmatari dell’Appello-questionario è quello che emerge dalle dieci domande, allora ben si comprende perché nel nostro Paese – a differenza di quanto accade altrove – i termini del dibattito in materia restano invariabilmente gli stessi ormai da decenni.
Le risposte a domande come quelle poste dalla SIAE, sfortunatamente, rischiano a loro volta di risultare altrettanto stupide ed inutili ma sarebbe un peccato sottrarsi ad una tanto esplicita richiesta di confronto e, quindi, come, peraltro, già fatto da altri prima e meglio, ecco alcune possibili risposte a ciascuna delle dieci domande:

D: 1. Perché il diritto d’autore, che fuori dalla rete è riconosciuto, in rete non deve essere remunerato?
R: Se gli estensori delle domande si fossero presi la briga di leggere le decine di pagine con le quali quanti hanno contestato l’approccio dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni al tema dell’enforcement dei diritti d’autore in Rete hanno scritto, non avrebbero trovato una sola riga nella quale è mai stato affermato tale principio.
Nessuno ha mai proclamato – almeno non in questo contesto – l’opportunità di abolire la proprietà intellettuale in Rete.
Non è d’altra parte – e spiace constatare che SIAE non ne sia informata – questo il tema del quale si sta occupando l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni.
 
D: 2. Perché coloro che criticano il provvedimento AGCOM non criticano anzitutto il furto della proprietà intellettuale? Perché impedire la messa in rete di proprietà intellettuale acquisita illegalmente dovrebbe essere considerata una forma di censura?
R: Domande come questa rappresentano una meravigliosa sintesi di ipocrita ingenuità.
SIAE e Confindustria Cultura sanno benissimo – e se così non fosse sarebbe grave – che nessuno, nel criticare le idee di enforcement dell’AGCOM, ha manifestato l’intenzione di attuare a proposto di novelli “espropri proletari” di diritti d’autore né – sebbene l’idea non sarebbe peregrina – la depenalizzazione almeno delle meno gravi tra le violazioni dei diritti d’autore.
Egualmente nessuno – ma proprio nessuno – ha, sin qui, rilevato che ordinare dalla Rete la rimozione di un film pubblicato senza autorizzazione del produttore equivalga a porre in essere un’attività censoria. Peraltro, in tal caso, l’unica vittima dell’eventuale censura sarebbe proprio il produttore cinematografico!
Il punto è un altro: le regole che l’AGCOM si avvia a varare minacciano di far scomparire dallo spazio pubblico telematico, all’esito di procedimenti sommari (48 ore) e senza contraddittorio tra le parti interessate (incluso l’uploader) contenuti solo apparentemente “pirata” e dotati di una straordinario contenuto informatico e/o espressivo.
Ciò che si contesta – ma questo SIAE e Confindustria cultura l’hanno certamente capito – sono le modalità attraverso le quali si vorrebbe garantire tutela ai titolari dei diritti d’autore in danno dei cittadini, titolari di diritti e libertà, quale quella di espressione, almeno pari ordinata rispetto al diritto d’autore.
 
D: 3. Perché dovrebbe risultare ingiusto colpire chi illegalmente sfrutta il lavoro degli altri?
R: Per nessuna buona ragione e, infatti, nessuno lo ha mai proposto. Non esiste niente di peggio per il mercato, la creatività, la cultura e l’informazione che il parassitismo. Ma attenzione a non confondere il riuso legittimo di altrui contenuti e/o dell’altrui creatività con lo sfruttamento. Sono concetti profondamente diversi.
Il riuso è parte integrante delle dinamiche di circolazione della cultura, delle idee e della creatività che la disciplina sul diritto d’autore mira a promuovere ed incentivare mentre, evidentemente, lo sfruttamento abusivo e parassitario è nemico giurato prima che degli autori ed editori degli utenti e dei fruitori di “cultura di seconda mano”.

D: 4. Perché si ritiene giusto pagare la connessione della rete, che non è mai gratis, ed ingiusto pagare i contenuti? E perché non ci si chiede cosa sarebbe la rete senza i contenuti?
R: A leggere questa domanda, vengono in mente gli episodi ai quali capita di frequente di assistere tra bambini: “perché a lui sì e a me no?”. Scene di ordinaria piccola gelosia che, tuttavia, se sono giustificate tra bambini, appaiono, francamente, fuori posto nel mondo degli adulti, e soprattutto in ragionamenti di politica economica e del diritto. È evidente – e d’altra parte basta leggere il comunicato pubblicato nei giorni scorsi da SIAE sui giornali per averne conferma – che SIAE, Confindustria Cultura e gli altri firmatari dell’appello-questionario ce l’hanno con i cosiddetti over the top (Google, Facebook e gli altri demoni degli incubi dei titolari dei diritti) e con gli Internet service provider ai quali, in buona sostanza, rimproverano di aver trovato modelli di business remunerativi in Rete mentre loro faticano ad individuarne.
La mamma, in genere, risponde al bambino che pone la domanda: “perché lui è stato più bravo. La prossima volta toccherà anche a te”.
La stessa risposta andrebbe data a SIAE ed ai “ragazzini” che rappresenta. Non c’è nessuna buona ragione per la quale, avendo davanti il più popolato mercato di contenuti digitali, cultura ed idee della storia dell’umanità, i titolari dei diritti dovrebbero essere spettatori dei guadagni altrui, solo che individuare il modello di business vincente è un loro problema rispetto al quale lo Stato deve rimanere estraneo.
Se diventeranno più bravi (soprattutto in termini di modernità, fantasia e creatività) è fuor di dubbio che anche i titolari dei diritti potranno guadagnare il denaro – perché di questo si discute nella pagana crociata contro i pirati – che oggi invidiano a ISP e over the top.
La Rete, in ogni caso, non rischia di rimanere senza contenuti perché contributi come quello che state leggendo, come i milioni di video caricati ogni ora su YouTube da novelli artisti e citizen journalist non verranno mai meno perché la loro creazione e pubblicazione non è dettata da un’aspettativa di remunerazione immediata e diretta.
Forse in SIAE farebbero bene, oltre che ad aprire una pagina su Facebook, a uscire dai loro uffici costosi ed ovattati ed a passare qualche giorno in Rete, tra la gente e negli straordinari laboratori di creatività ed intelligenza collettiva che la popolano.
 
D: 5. Perché il diritto all’equo compenso viene strumentalmente, da alcuni, chiamato tassa? Perché non sono chiamate tasse i compensi di medici, ingegneri, avvocati, meccanici, idraulici, ecc.?
R: La risposta è semplice e disarmante. L’equo compenso per copia privata viene chiamato “tassa” perché nella sua declinazione italiana, fortemente voluta dalla SIAE, è esattamente una tassa, ovvero un importo che viene esatto dietro minaccia di una sanzione pecuniaria per l’ipotesi di omesso versamento e in difetto di uno dei presupposti necessari a che lo si possa definire compenso: la cessione all’utente finale di un effettivo diritto.
La disciplina italiana, infatti, prevede che il compenso sia dovuto indiscriminatamente a fronte di qualsiasi vendita di dispositivi e supporti tecnicamente idonei all’effettuazione della copia privata anche se a ciò, certamente, non destinati.
Come altro definirlo se non tassa, balzello, tributo? Ci penseranno, d’altra parte, i giudici amministrativi – come già accaduto in Francia – a ridimensionare la posizione di SIAE sul punto. Resta, peraltro, da capire cosa c’entri l’equo compenso per copia privata con l’attività regolamentare che sta svolgendo l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni.

D: 6. Perché Internet, che per molte imprese rappresenta una opportunità di lavoro, per gli autori e gli editori deve rappresentare un pericolo?
R: Perché il mare e la montagna per taluni sono straordinari amici e compagni di giochi, divertimenti e/o lavoro mentre per altri pericolosi ed insidiosi nemici? Una delle tante possibili risposte è che la ragione sia nel fatto che i primi conoscono e rispettano mare e montagna mentre i secondi li conoscono poco e, soprattutto, non li rispettano, limitandosi a volerne sfruttare le straordinarie risorse.

D: 7. Perché nessuno si chiede a tutela di quali interessi si vuole creare questa contrapposizione (che semplicemente non esiste) tra autori e produttori di contenuti e utenti?
R: Sarebbe interessante conoscere la risposta della SIAE a questa domanda perché l’unica vera ragione risiede proprio nella circostanza che vi siano antichi intermediari dei diritti e della circolazione dei contenuti che non si rassegnano al cambiamento dei tempi e vogliono continuare a lucrare sull’arte, la cultura e l’informazione sebbene il loro ruolo sia divenuto inutile o, comunque, sia stato ridimensionato dalla rivoluzione in atto. Autori, produttori ed utenti, in un ecosistema in cui la circolazione dei diritti d’autore fosse, finalmente, disintermediata, semplificata e deburocratizzata, sarebbero inseparabili compagni di viaggio.

D: 8. Perché dovremmo essere contro la libertà dei consumatori? Ma quale libertà? Quella di scegliere cosa acquistare ad un prezzo equo o quella di usufruirne gratis (free syndrome) solo perché qualcuno che l’ha “rubata” te la mette a disposizione?
R: A prescindere da qualche problema di italiano e di consecutio che rende difficile capire il senso della domanda, si tratta di una classica “dichiarazione confessoria”: libertà per SIAE e per i suoi amici significa, al massimo, libertà di scegliere cosa comprare e quanto pagare mentre la “gratuità” e/o motivazioni diverse alla creazione artistica ed alla messa in circolazione di contenuti creativi e/o informativi non sono rientrano nella nozione di libertà. Non resta che concludere, a seguire il ragionamento di SIAE, che la Rete non è libera perché in Rete, quella della remunerazione diretta, è solo – e per fortuna – una delle molteplici motivazioni alla produzione e diffusione di cultura, arte ed informazione. Non so perché ma proprio non riesco ad augurarmi che i crociati della SIAE arrivino a liberare la Rete dalle sue liberticida barbare culture!

D: 9. Perché nessuno dice che l’industria della cultura occupa in Italia quasi mezzo milione di lavoratori e le società “over the top” al massimo qualche decina? E perché chi accusa l’industria culturale di essere in grave ritardo sulla offerta legale di contenuti, poi vuole sottrarci quelle risorse necessarie per continuare a lavorare e dare lavoro e per investire sulle nuove tecnologie e sul futuro?
R: La premessa della domanda non è corretta. Da quindici anni non c’è campagna antipirateria, iniziativa legislativa o di governo, audizione pubblica e meno pubblica nell’ambito della quale non ci siano schiere di lobbisti – nel senso deteriore di un termine che meriterebbe ben altra considerazione – ed economisti pronti a ricordare che la pirateria toglie posti di lavoro alla cosiddetta industria dei contenuti.
E più difficile, invece, che capiti di confrontarsi con analisi obiettive ed indipendenti che mettano in una qualche relazione le nuove dinamiche della circolazione dei contenuti digitali online con il presunto danno dell’industria dei contenuti e, conseguentemente, con la perdita dei posti di lavoro. Si fa d’altra parte fatica a comprendere – se non nella solita logica infantile del “perché lui sì ed io no?” – che rilievo possa avere il riferimento alla circostanza che i cosiddetti over the top impieghino, per fare un lavoro diverso, meno personale.
Quanto, infine, alle risorse necessarie “a continuare a lavorare e dare lavoro e per investire sulle nuove tecnologie e sul futuro”, se non son bastati i miliardi di euro dragati, sin qui – tra compensi equi e meno equi, tasse, balzelli e sovvenzioni – al sistema Paese, è difficile ipotizzare che avremmo un’industria dei contenuti più moderna se la fornissimo di più efficaci strumenti di antipirateria.
Per esser moderni serve solo fantasia, coraggio, conoscenza del mercato e disponibilità a ripensare i vecchi modelli di business, magari facendo qualche piccolo sacrificio.
 
D: 10.Perché, secondo alcuni, non abbiamo il diritto di difendere il frutto del nostro lavoro, non possiamo avere pari dignità e dobbiamo continuare a essere “figli di un Dio minore”?
R: Ammesso che, fuor della metafora cinematografica, esistano figli di dei maggiori e minori, sembra fuor di dubbio che Zeus, il più potente tra gli dei, abbia dato vita alla SIAE ed all’industria italiana dei contenuti, consentendo loro di accumulare ricchezze senza eguali e dotandoli di eserciti remunerati con strumenti di tassazione generale e particolare da parte dei figli di tutti gli altri dei (minori).
Che un ente come la SIAE a cui lo Stato si ostina a garantire un monopolio contrario ad ogni più elementare principio di mercato e di diritto europeo a riconoscere la possibilità di agire – a seconda dei casi – da soggetto privato o da soggetto pubblico, brandendo lo spauracchio delle sanzioni pecuniarie per ottenere denaro dai propri clienti, a permettere di intermediare, in esclusiva, un iniquo compenso traendone lauti guadagni nella forma di sedicenti rimborsi spese e, persino, di continuare a vendere inutili pecette adesive argentate a suon di decine e decine di milioni di euro all’anno possa sentirsi “figlia di un Dio minore” è, francamente, affermazione che lascia senza parole.
Delle due l’una o in viale della Letteratura soffrono di complesso di inferiorità o di vittimismo.

Dieci risposte a dieci domande.
Temo inutili – le prime come le seconde – ad elevare il livello del dibattito, ma forse utili, almeno ad aprire un dialogo ed un confronto su temi e questioni neppure lambiti dalle dieci domande della SIAE come, ad esempio – certamente non saranno tutti – quelli oggetto delle domande già poste ai Commissari AGCOM e, sfortunatamente rimaste, sin qui, senza risposta.
Chissà se SIAE vorrà cimentarsi in un esercizio analogo a quello fatto sin qui.

Guido Scorza
Presidente Istituto per le politiche dell’innovazione
www.guidoscorza.it

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Pubblicato il
15 lug 2011
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