La digitalizzazione della Pubblica Amministrazione

La digitalizzazione della Pubblica Amministrazione

di Peter Freeman. Che succede quando si entra con fiducia negli uffici di un ente pubblico, si accettano file e attese, si percorrono corridoi, si aspetta il proprio turno e ci si scontra con i PC fulminati per un mese?
di Peter Freeman. Che succede quando si entra con fiducia negli uffici di un ente pubblico, si accettano file e attese, si percorrono corridoi, si aspetta il proprio turno e ci si scontra con i PC fulminati per un mese?


Roma – A proposito di modernizzazione del paese, di digitalizzazione et similia, oggi ho fatto un istruttivo frontale con la modernizzazione della P.A.

Vi tedierò con un raccontino della mattinata.

Mi sono giunte nei giorni scorsi delle ingiunzioni di pagamento relative a multe non pagate (e, peraltro, mai notificate) datate 1994. Scaltrito da esperienze passate e forte del sospetto che le multe in questione siano andate in prescrizione, mi reco in Roma, via Ostiense 131, presso una sorta di falansterio sansimoniano, buio, affollato e disordinato come il “Condominio” di James
Ballard
, dove, mi era stato assicurato in precedenza dall’Ufficio Tributi di via dei Normanni, mi forniranno tutte le informazioni relative alle mie cartelle esattoriali.

Con tiepida fiducia nei confronti delle magnifiche sorti e progressive della digitalizzazione della P.A., mi inoltro nel suddetto falansterio. Con qualche fatica vengo spedito al quarto piano, corpo B (a destra, poi a destra e infine a
sinistra). Con rinnovata fiducia mi sporgo all’ufficio informazioni (il cartello spiega “Informazioni di primo livello”.. e mi interrogo su quali siano i livelli successivi, ma la domanda provoca una voragine nella mia già fragile mente).

Al desk, vi sono due gentili signori: mi rivolgo al primo, ben fornito di uno sciarpone giallorosso (non sia mai, forza Roma…) e gli mostro la sommaria documentazione pervenutami con relativo avviso di pignoramento.

Lo stanzone pullula di disgraziati come me, e c’è un vociare che sovrasta ogni altro suono. Il signore del desk, prontamente, esamina con occhio clinico la mia documentazione, poi avvicina un apparecchio alla gola (ha subito un’operazione alle corde vocali e non può parlare senza l’apparecchio) dal quale provengono suoni quasi indistinti. Percepisco a fatica, nel casino generalizzato, le parole “stanza 429” (a destra e poi a destra e ancora a destra, poi, in fondo al corridoio a sinistra). Il signore mi porge un numerino.

Giungo alla stanza 429, al cui ingresso si affollano una trentina di persone. Cerco il display per i numeri in chiamata, ma il display non c’è. Con slancio solidaristico eseguo un sondaggio su chi è il primo e chi l’ultimo. Io sono il ventiquattresimo.

Mi affaccio alla soglia e mi si presenta il seguente spettacolo. La stanza è così arredata: una fotocopiatrice in carenza di toner (questo lo scoprirò in seguito), una scrivania rotta e due impiegati di concetto seduti dietro la scrivania. Non c’è ombra di computer e neppure di materiale cartaceo (faldoni, cartelle, carta igienica: nulla). In piedi, di fronte alla scrivania, due disgraziati in attesa di informazioni e altri tre impiegati di concetto che, a turno, fotocopiano dei documenti all’apparecchio a corto di toner.

Mi metto in attesa. Nel frattempo si affacciano due dirigenti che, vista la situazione, esclamano: “Qui ci vuole più personale, almeno due persone”. Detto e fatto, dopo mezz’ora giunge in loco non il personale ma un’altra scrivania che, nel tentativo di introdurla nella stanza, viene irrimediabilmente scheggiata. Una scrivania in più, senza altre sedie e senza altro personale. La scrivania resta lì, solitaria in un angolo, malinconicamente troneggiante.

Passano altri venti minuti e tocca a me. Mi introduco nel pertugio e, privo di speranza, spiego con calma e fasulla determinazione all’impiegato (gentilissimo,
sia chiaro) la questione che mi riguarda. Lo guardo, mi guarda. Ci interroghiamo a vicenda con gli occhi e provo un moto di forte solidarietà per lui.

“Le devo dare un altro appuntamento”, mi spiega.
“E sia – rispondo – ma perché?”.
“Non possiamo fare alcuna verifica”, dice lui, sconsolato.
“Lo sospettavo, ma perché?”, chiedo ancora.
“Dotto’, ieri l’Acea ha fatto dei lavori e ha fulminato sette terminali. Nun avemo i Pc”, risponde lui.
“Ah. E quando li ripareno”, chiedo io, con zelighismo romanesco.
“Nun se sa. Je do l’appuntamento per il 27 aprile.” mi ingiunge.
A questo punto si inserisce l’altra impiegata di concetto: “Sì, guardi, venghi (?!?) il 27”.
Rispondo: “Ok, vadi per il 27.”

A questo punto la mia sconfitta è totale, assoluta, definitiva: ho perso una mattinata di lavoro e nulla so delle mie multe, dell’avviso di pignoramento, del futuro di quelle scrivanie, di che cavolo sia un “Informazione di secondo livello”. Sono, né più né meno, un analfabeta male amministrato.

Una cosa però l’ho appresa. L’Acea si muove con la grazia di un elefante in un negozio di cristalleria, fa un lavoro (scavi, suppongo, o forse canaline) e ti fulmina una centuria di terminali della pubblica amministrazione. E, per riparare i danni, ci vorranno circa ventidue giorni, festivi inclusi.

Peter Freeman

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Pubblicato il
7 apr 2001
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