Luca Armani contro il potere del marchio

Luca Armani contro il potere del marchio

Un'opinione di Ettore Panella, presidente dell'associazione NewGlobal.it, sul come è stata percepita la vicenda del dominio Armani.it. Tra indios e conquistadores
Un'opinione di Ettore Panella, presidente dell'associazione NewGlobal.it, sul come è stata percepita la vicenda del dominio Armani.it. Tra indios e conquistadores


Roma – Confesso che ho passato molto tempo davanti ad un foglio vuoto per trovare un titolo a questo intervento. Come racchiudere questa amara vicenda in una sola frase? Davide contro Golia? Titolo scontato e poi l’esito è stato opposto. In questo caso ha vinto Golia (come quasi sempre accade, e quando non accade vuol dire che Davide ha i suoi bravi “Santi in Paradiso”). Il caso del dominio armani.it? Banale. Ci voleva qualcosa capace di andare al succo del problema e contemporaneamente alludere ad uno scontro più ampio, che va oltre il caso specifico, uno scontro tra civiltà, uno scontro tra valori, uno scontro tra generazioni, uno scontro che racchiude qualcosa di epico nel suo essere chiave di volta, nel suo essere lo spartiacque tra due mondi. Luca Armani contro il potere del marchio è proprio il titolo giusto.

La storia è ormai nota : Luca Armani, semplice artigiano lombardo, registra per tempo il dominio armani.it corrispondente al suo cognome e ci pubblicizza la sua attività. Tempo dopo, la Emporio Armani spa scopre Internet. Vuole il dominio ma non ricorre agli Enti Conduttori che per conto della Naming Authority italiana decidono entro due mesi ed alla modica cifra di poco meno di 1000 euro sulle controversie circa i domini. Se lo avesse fatto avrebbe avuto torto in quanto per le regole che la comunità Internet si è data la Emporio Armani spa non aveva il diritto di togliere il dominio a Luca Armani.

La Emporio Armani spa ricorre alla Magistratura Ordinaria italiana, enormemente più lenta e onerosa la quale come da pronostico ha dato ragione al più famoso Armani stilista basando le sue argomentazioni proprio sul valore anche economico del marchio che per il mondo reale è qualcosa di “sacro” mentre per la comunità Internet non ha un valore superiore, ad esempio, al valore del cognome.

In questo articolo non mi interessa discutere sulla validità giuridica o meno della sentenza, illustri avvocati hanno sezionato la vicenda e scritto moltissime pagine con maggiore competenza ed autorevolezza di quanto potrei fare io. Mi interessa invece rimarcare questa dicotomia tra mondo reale e comunità Internet . Ma soprattutto spiegarmi qual è il motivo che ha trasformato una vicenda tutto sommato come tante in una pietra miliare, in qualcosa che ha animato gli animi, che ha smosso le coscienze, che ha fatto scrivere milioni di parole nei forum, che ha trasformato suo malgrado una persona semplice in un eroe per forza.

La Magistratura Italiana, chiamata a giudicare sul caso, ha ritenuto preponderante il valore del marchio , cosa che ha una sua dignità. Infatti, il marchio identifica agli occhi del consumatore un prodotto e l’azienda produttrice. Il marchio è importante in quanto impegna il produttore a garantire la qualità del suo prodotto e fornisce gli elementi necessari al consumatore per ricorrere in giudizio in caso di malfunzionamenti o frodi. In questa ottica la falsificazione del marchio è un delitto contro il consumatore prima che contro l’azienda in quanto il povero malcapitato non avrebbe garanzia di qualità ed in caso di problemi non potrebbe rivalersi su quello che erroneamente ha creduto essere il produttore.

E’ stato questo il caso? Se Luca Armani avesse venduto maglioni, sì. Tuttavia Luca Armani produce timbri, ovvero crea un prodotto assolutamente non confondibile con quello del più famoso Giorgio, né sviava la clientela verso altri stilisti.

Per comprendere realmente la questione dobbiamo calarci nella schizofrenia di questo mondo reale, dobbiamo fermarci a riflettere e notare che raramente le pubblicità enunciano le caratteristiche di un prodotto o la sua qualità ma semplicemente tendono a suggestionare chi le guarda puntando all’inconscio, al sogno e quel che è peggio puntando al desiderio di essere accettati in un gruppo o in una élite. Sappiamo tutti che il consumatore acquista il prodotto di marca, specie se vestiario, non per le sue caratteristiche o per la sua comodità o portabilità ma spesso, per non dire quasi sempre, per testimoniare una capacità di spesa, per mostrare di potersi permettere il capo firmato, per far parte di un circolo ristretto.

Non capiremmo altrimenti perché la gente compri prodotti falsi e di evidente pessima qualità sulle bancarelle, sapendo di comprare un falso, se non nell’ottica di crearsi un sogno artificiale non potendosi permettere quello reale. Se nel mondo reale questa supremazia del marchio, inteso come potere sul consumatore e non come servizio al consumatore, è un dato di fatto, non succede lo stesso nelle comunità Internet. Gli accademici e gli studenti, i provider, gli sviluppatori open source, i tecnici, insomma coloro che seppero lentamente sottrarre ai militari quella che era stata una formidabile arma e che hanno saputo trasformarla in uno strumento di grande progresso per l’umanità, si illusero di creare una comunità libera, dove il potere economico non fosse superiore all’essenza dell’essere umano. Questa comunità si è svegliata e ha scoperto in frantumi quel sogno che la ha animata, che ha spinto, ad esempio, migliaia di programmatori a sacrificare il proprio tempo libero per sviluppare quell’ideale chiamato Internet. La reazione è stata rabbiosa anche se sterile, i forum che discutono della vicenda si sono infiammati.

Luca Armani è diventato, suo malgrado e senza desiderarlo, l’eroe che incarna una offesa subita per traslato da tutta la comunità Internet, l’emblema di un mondo soccombente ai nuovi “conquistadores”, i quali, nonostante avessero avuto alle loro dipendenze i migliori professionisti, non hanno avuto più lungimiranza di un semplice artigiano e che, invece di riflettere sulla loro incapacità di capire il nuovo che avanza, si sono scagliati alla conquista dei nuovi territori, non importa se questi fossero abitati da qualche tribù di “indios”.

La vicenda che stiamo trattando non potrebbe essere compresa se non inserita in quello che è uno scontro più ampio di cui i nostri protagonisti sono solo, a torto o a ragione, dei simboli. Quello in atto è uno scontro tra “gli indios” della rete e tutti i nuovi “conquistadores” che non amano il nuovo mondo, che vogliono solo razziare quanto più oro possibile per tornare carichi di ogni ricchezza nel loro mondo, quello dove si sentono veramente a loro agio, quello che sa onorarli ed accoglierli da trionfatori.

Non hanno partecipato né contribuito alla realizzazione di questo sogno chiamato Internet eppure chiedono a chi c’era di sacrificarlo sull’altare del profitto a tutti i costi, gli chiedono di rassegnarsi ad importare anche nel virtuale la loro follia. Questi “conquistadores” hanno creato un mondo senza umanità, stanno distruggendo l’ambiente, trattano la gente come semplici consumatori, come quegli animali da carne legati alla mangiatoia con il solo scopo nella loro misera vita di consumare il pastone. Addirittura i novelli arbitri di eleganza, che in questa epoca spuntano come i funghi, hanno proposto al gentil sesso un modello di donna, loro che non sempre amano le donne, sbagliato e dannoso. Hanno esposto sempre modelle ridotte all’osso, sponsorizzando di fatto l’anoressia come emblema della bellezza. Hanno di fatto contribuito a diffondere l’ansia per il grammo di troppo. Addirittura le donne sottopeso sono state talmente condizionate da vedersi comunque grasse, vogliono ancora dimagrire, sempre di più…fino alle estreme conseguenze, hanno perso la voglia di vivere, del sesso, del futuro. Stanno rovinando la vita alle tante donne di questo paese e per traslato anche a noi uomini che in quanto mariti, padri, figli, fratelli, compagni viviamo loro accanto. Grazie! Ne avevamo proprio bisogno!

Questa vicenda rappresenta per tutti noi “indios” della rete una chiamata all’impegno prima che sia troppo tardi. Oggi più che mai siamo chiamati a domandarci se crediamo ancora in quel sogno e se desideriamo realmente continuare a realizzarlo o rassegnarci al niente che avanza, all’apparire piuttosto che all’essere.


Ettore Panella
Presidente dell’associazione newglobal.it

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Pubblicato il
18 nov 2003
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