Il Regno Unito vuole tassare (di più) le app

Il Regno Unito vuole tassare (di più) le app

Nelle intenzioni del Governo c'è una stretta sulla fatturazione delle vendite nei marketplace in regimi fiscali vantaggiosi. Il risultato è che dal 2015 Oltremanica le app potrebbero costare di più
Nelle intenzioni del Governo c'è una stretta sulla fatturazione delle vendite nei marketplace in regimi fiscali vantaggiosi. Il risultato è che dal 2015 Oltremanica le app potrebbero costare di più

Niente più fatturazioni fatte oltre frontiera dove le imposte sono più convenienti: nell’equivalente della legge finanziaria o DEF nostrano, il Governo britannico si accinge a varare un cambiamento sostanziale all’attuale regime fiscale, tale per il quale le vendite di software avvenute in forma digitale, tramite i sempre più comuni marketplace dei sistemi operativi mobile e desktop, produrranno un gettito VAT (l’equivalente nel Regno Unito dell’IVA) analogo a quello delle vendite di beni fisici . Un aumento che facilmente potrebbe riflettersi sul prezzo finale delle app.

Attualmente la stragrande maggioranza delle multinazionali del software, Apple, Google e Microsoft in testa, approfittano delle pieghe dei regimi fiscali di Europa e Nordamerica (ma non fanno eccezione altri mercati come l’Australia ) per dirottare in paesi con aliquote fiscali più vantaggiose gli incassi: nell’esempio portato dal Guardian , tra il 3 per cento di tassazione del Lussemburgo e il 20 del Regno Unito ci sono ben 17 punti di differenza, che se dal 2015 entrerà davvero in vigore questa riforma non potranno che generare qualche cambiamento nelle modalità di vendita del software. Le app che costano 99 centesimi saranno improvvisamente gravate di una quota di costi legati alle tasse non indifferente , che difficilmente potrà essere assorbita da chi gestisce il marketplace o dagli sviluppatori senza causare un rincaro.

La vendita dei servizi digitali pone in ogni caso una sfida non da poco al fisco di Londra come a quello di molti altri paesi: le regole sono state scritte in un mondo di beni fisici da trasportare su nave e da importare tramite la dogana, per poi finire in vendita sugli scaffali, mentre sempre più spesso nel panorama ICT si tende a scavalcare tutta la filiera per connettere direttamente produttore e consumatore . Questo surrogato del chilometro zero drena milioni di euro, sterline e dollari ogni anno al fisco: in Italia si è molto parlato di Web Tax (o Google Tax), ma anche altrove come in Regno Unito ferve il dibattito in merito a come tassare i commerci digitali dematerializzati.

La questione è resa tanto più complessa dai bizantinismi che già attualmente sono in capo alle aziende che decidono di commercializzare i propri prodotti in diversi mercati: imporre contabilità multiple, o addirittura l’apertura di una partita IVA italiana come da proposta dell’On. Boccia, potrebbe costituire un ostacolo non da poco soprattutto per i più piccoli . Senza contare che mancando un’armonizzazione delle regole si potrebbero comunque generare dei vantaggi indebiti per aziende che fissino la propria residenza in una nazione piuttosto che in un’altra. Un’unico fattore appare oggi lampante: i governi hanno messo gli occhi sul fatturato del digitale, e hanno deciso che sarà questa una delle fonti da cui attingere per rimpinguare le casse degli stati. A prescindere dagli effetti che questo avrà su un intero settore.

Luca Annunziata

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Pubblicato il 25 mar 2014
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