Yahoo e Mediaset, il search trova

Yahoo e Mediaset, il search trova

Per sua natura il motore di ricerca organizza e agevola l'accesso a contenuti immessi in Rete da terzi, e lo fa in maniera automatica. RTI non può pretendere da Yahoo alcuna esclusiva sull'indicizzazione dei propri programmi. La decisione del Tribunale di Appello di Milano
Per sua natura il motore di ricerca organizza e agevola l'accesso a contenuti immessi in Rete da terzi, e lo fa in maniera automatica. RTI non può pretendere da Yahoo alcuna esclusiva sull'indicizzazione dei propri programmi. La decisione del Tribunale di Appello di Milano

Mediaset aveva tentato di imporre a Yahoo la deindicizzazione di tutti i risultati di ricerca che ospitassero frammenti dei contenuti su cui detiene i diritti che non puntassero al proprio portale, aveva tentato di dimostrare la responsabilità di Yahoo nell’organizzazione di questi link e la complicità del motore di ricerca nelle violazioni. Dopo la sentenza di primo grado, RTI si è scontrata anche con il giudizio di appello: agli automatismi degli algoritmi non può essere attribuita alcuna responsabilità.

Era il 2009 quando RTI aveva bussato alla porta di Yahoo, immediatamente a seguito della causa milionaria avviata nei confronti di YouTube e del contenzioso aperto con Libero.it: le motivazioni erano le stesse, la presenza di frammenti di trasmissioni Mediaset sui quali i portali avrebbero lucrato con l’advertising; le pretese erano le stesse, risarcimenti milionari, la cancellazione di tutto quanto fosse di dominio del Biscione e meccanismi in grado di prevenire le violazioni future; le modalità, identiche, con segnalazioni non circostanziate che le piattaforme di video sharing avrebbero dovuto interpretare, individuando i singoli video da far sparire. Ottenuta nel 2011 la prima vittoria nel confronti di Yahoo! Video, l’allora piattaforma video sharing ritenuta responsabile dal Tribunale di Milano di agire in qualità di servizio di hosting “attivo”, e avviato il procedimento per la fissazione dei danni, RTI apriva un altro fronte nella battaglia contro Yahoo, quella nei confronti del motore di ricerca: “i risultati naturali delle ricerche su Internet – ricorda a Punto Informatico l’ avvocato Marco Consonni , dello studio Orsingher Ortu Avvocati Associati, che ha seguito il caso per Yahoo – contenevano collegamenti con siti terzi che consentivano la visione non autorizzata di opere di cui RTI sarebbe titolare. Secondo RTI questa circostanza sarebbe stata anche in violazione della sentenza parziale del 2011″.

Mediaset, nello specifico, si era scagliata contro la sezione del motore di ricerca dedicata ai video: gli unici video contenenti programmi RTI a cui Yahoo avrebbe dovuto indirizzare i propri utenti sarebbero dovuti essere quelli ospitati sui siti ufficiali di Mediaset . Yahoo, in quanto neutro fornitore di servizi di search, peraltro operato da Microsoft, e poiché non aveva ricevuto alcuna segnalazione puntuale dei contenuti da isolare se non quelli citati nel contenzioso parallelo relativo al portale Video, non aveva accolto le richieste del Biscione: RTI chiedeva dunque che il Tribunale costringesse il motore di ricerca ad agire, pena 10mila euro per ogni violazione e 10mila euro per ogni giorno di inottemperanza, e suggeriva l’imposizione di 2,5 milioni di euro in qualità di penale e oltre 10 milioni di euro a titolo di risarcimento.

A supporto delle proprie rivendicazioni, Mediaset citava il fatto che Yahoo proponesse agli utenti dei suggerimenti per la ricerca e incastonasse i video proposti nella pagina dei risultati. RTI tentava evidentemente di sollecitare presso il tribunale l’interpretazione che già la aveva premiata nella sentenza del 2011: dimostrare che il motore di ricerca, così come il portale video, si configurasse in qualche modo come “attivo” rispetto ai contenuti caricati da terzi determinava il fatto che non si potesse fare scudo dalle previsioni relative alla non responsabilità degli intermediari contenute nella direttiva europea sul commercio elettronico ( 2000/31/CE ), recepite in Italia con il decreto legislativo 70/2003 .
Yahoo si era naturalmente opposta: aveva descritto le relazioni intrattenute con i servizi tecnici di Bing, con Microsoft intervenuta a supporto della sua tesi, aveva tracciato i confini del proprio servizio nell’ambito dell’attività di mere conduit o caching, tutelate dall’esenzione di responsabilità previste per legge e sollevate da qualsiasi obbligo di deindicizzazione se non su segnalazione circostanziata e di controllo preventivo sui contenuti condivisi da terzi e messi a disposizione attraverso i propri servizi.

Già nel mese di giugno 2014 il Tribunale di Milano non aveva avuto dubbi: l’originale interpretazione di Yahoo quale servizio di hosting “attivo” delineata nelle sentenza del 2011, ammesso che si potesse applicare al portale dedicato ai video, avvicinato alla figura di content provider, non si sarebbe in alcun modo potuta applicare al motore di ricerca . L’attività del search engine, osservava nel 2014 il Tribunale di Milano, ha per funzione “cercare e organizzare in un elenco i siti pertinenti ai criteri di ricerca indicati dall’utente interrogante fornendo i link che consentono la connessione con ciascuno di essi”, basandosi anche sulla memorizzazione “automatica, intermedia e temporanea” delle informazioni, che però “non comporta una conoscenza o controllo di tali dati da parte del fornitore di servizio”. Nemmeno l’embedding dei video, o la scelta del frame con il quale proporli all’utente, comportano un intervento attivo da parte di Yahoo, e lo stesso vale per i suggerimenti di ricerca, definiti dal tribunale “di carattere automatico e neutro”, “che completano automaticamente le chiavi della ricerca stessa sulla base delle combinazioni più utilizzate dal complesso degli utenti stessi”: sono da ritenersi “pertinenti ad una normale e lecita attività di ottimizzazione del servizio di ricerca che non trvalica i limiti di riconducibilità di tale attività alla figura prevista dall’art. 15 D. Lgsvo 70/03”.

RTI, non soddisfatta della decisione del Tribunale di Milano, era ricorsa in appello. Per supportare le proprie argomentazioni aveva citato la recentissima sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nel caso C More Entertainment AB, canale televisivo a pagamento che trasmette in diretta streaming che si scagliava contro un cittadino svedese accusato di mettere a disposizione dei link per accedere gratuitamente a tali contenuti. Nemmeno alla Corte d’Appello di Milano è risultata chiara la connessione con il caso Yahoo: il motore di ricerca ha “solamente una funzione di riordino e di indicizzazione” e “non appaiono sussistere elementi tali da far desumere che l’attività di Yahoo! Italia SRL sia intenzionalmente orientata ad agganciare links in aperta violazione dei diritti altrui”.
La richiesta e i nuovi elementi presentati da Mediaset, dunque, non risultano secondo il Tribunale “meritevoli di ulteriore approfondimento o di diversa interpretazione”.

Le rivendicazioni di Mediaset sono state dunque stroncate nella loro totalità: nel mese di gennaio, con la sentenza che ha sbaragliato l’ipotesi di una fattispecie “attiva” per il servizio di hosting operato da Yahoo Video, ora, nel mese di aprile, con la sentenza che ha in sostanza confermato che il motore di ricerca opera automaticamente per far trovare ai netizen ciò che cercano , senza doversi preoccupare di selezionare i risultati e di indirizzare gli utenti verso l’unica fonte legittima. “Attribuire all’automatismo algoritmico del motore di ricerca un qualsiasi “attivismo” – osserva l’avvocato Consonni – sarebbe conclusione molto molto forzata e non rispondente neppure ai criteri della sentenza parziale”.
Mediaset, però, non si mostra rassegnata: RTI ha impugnato in Cassazione la sentenza della Corte d’Appello relativa a Yahoo Video.

Gaia Bottà

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Pubblicato il
4 mag 2015
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