Diritto all'oblio, Google e il link che non diffama

Diritto all'oblio, Google e il link che non diffama

Il Tribunale di Roma respinge la prima richiesta di deindicizzazione passata per la giustizia ordinaria: la libera circolazione dell'informazione, soprattutto se di interesse pubblico, vince sulla privacy. E non ha nulla a che vedere con la diffamazione
Il Tribunale di Roma respinge la prima richiesta di deindicizzazione passata per la giustizia ordinaria: la libera circolazione dell'informazione, soprattutto se di interesse pubblico, vince sulla privacy. E non ha nulla a che vedere con la diffamazione

Il principio della libera circolazione dell’informazione, e il diritto dei cittadini ad informarsi, concorrono con il diritto dell’individuo a non farsi infangare dal proprio passato: il Tribunale di Roma, per la prima volta in Italia dopo la dibattuta sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, si è dovuto confrontare con l’applicazione del diritto all’oblio. Google, chiamato a deindicizzare dei link ritenuti dal protagonista degli URL lesivi della propria reputazione e del proprio diritto alla privacy, si è dimostrato un arbitro equo nel bilanciare le istanze in gioco.

Google e diritto all'oblio

Il caso era stato sollevato da un avvocato romano, dopo essersi visto respingere dal motore di ricerca la richiesta di deindicizzazione avanzata attraverso i meccanismi approntati da Mountain View all’indomani della decisione dei giudici di Lussemburgo: la Grande G, sulla base di schemi ormai rodati , aveva rifiutato al professionista di rimuovere dalla SERP degli URL risultanti da una ricerca a proprio nome, che puntavano ad articoli di cronaca relativi a una vicenda giudiziaria incentrata su truffe e guadagni illeciti nella quale era rimasto coinvolto tra il 2012 e il 2013, insieme a esponenti del clero e soggetti legati alla notoria banda della Magliana. 14 erano i link di cui l’avvocato chiedeva la rimozione, per illegittimo trattamento dei suoi dati personali: nei suoi confronti non è stata emessa alcuna condanna, e lamentava che la visibilità delle notizie avrebbe potuto attentare alla sua reputazione e riservatezza .

Dopo il rigetto delle richiesta da parte di Google, alternativamente a quanto previsto dalle linee guida dettate in ambito europeo e sulla base dell’art. 152 del Codice Privacy, l’avvocato non aveva presentato ricorso di fronte al Garante Privacy italiano, che nei casi presi in esame ha mostrato un orientamento pressoché in linea con quello di Google. Si era invece rivolto all’autorità giudiziaria ed esattamente un anno fa aveva chiamato in causa Google Inc. per i 14 risultati contestati. Il tribunale di Roma, nella persona del giudice Damiana Colla, ha ora emesso la propria sentenza.

Innanzitutto, gli URL in oggetto si sono ridotti a 10, poiché 4 dei link segnalati dall’avvocato, che puntavano in ogni caso a pagine Web prive di contenuti, non risultavano più figurare fra i risultati di ricerca restituiti con le keyword corrispondenti al suo nome. Il giudice ha poi stabilito che la domanda del professionista non fosse fondata , respingendo così la richiesta di deindicizzazione e la richiesta di risarcimento, pari ad almeno 1000 euro.

Il Tribunale di Roma ha ricordato che il diritto all’oblio si sostanzia in una “peculiare espressione del diritto alla riservatezza (privacy) e del legittimo interesse di ciascuno a non rimanere indeterminatamente esposto ad una rappresentazione non più attuale della propria persona derivante dalla reiterata pubblicazione di una notizia (ovvero nella specie il permanere della sua indicizzazione sui motori di ricerca), con pregiudizio alla propria reputazione e riservatezza (attesa l’attenuazione dell’attualità della notizia e dell’interesse pubblico all’informazione con il trascorrere del tempo dall’accadimento del fatto)”. Esplicita altresì, richiamando quando dettato nella decisione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, l’importanza della tempistica e della natura dell’informazione: “il diritto all’oblio, infatti, deve essere bilanciato (…) con il diritto di cronaca e con l’interesse pubblico alla conoscenza dei fatti acquisibili per il tramite dei links forniti dal motore di ricerca”.

Il giudice, prendendo in esame non solo la sentenza europea e le linee guida dettate dall’ Article 29 Working Party , ma anche facendo riferimento ai precedenti analizzati dal Garante italiano, si è dunque fatto carico del compito di bilanciare i diritti fondamentali alla vita privata e alla tutela dei dati personali fissati negli articoli 7 e 8 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea con l’ interesse pubblico alla libera circolazione dell’informazione , che sarà giudicata rilevante sulla base dell’ attualità , della natura pubblica o privata dei contenuti che riporta, del ruolo ricoperto dall’individuo sul quale è incentrata.

Questi parametri, ha riconosciuto il Tribunale di Roma, pendono a favore della conservazione dei risultati di ricerca. I fatti oggetto delle notizie corrispondenti gli URL, osserva il giudice, risalgono “al non lontano 2013 (o al più al luglio 2012, secondo due dei risultati della ricerca)” e risultano “ancora attuali”. I fatti, poi, appaiono al giudice “di sicuro interesse pubblico”, in primo luogo perché riguardano “un’importante indagine giudiziaria che ha visto coinvolte numerose persone, seppure in ambito locale-romano, verosimilmente non ancora conclusa” e perché il ricorrente, libero professionista, ricopre un ruolo pubblico “proprio per effetto della professione svolta e dell’albo professionale cui è iscritto”.
Il giudice ha così stabilito che “l’interesse pubblico a rinvenire sul web attraverso il motore di ricerca gestito dalla resistente notizie circa il ricorrente deve prevalere sul diritto all’oblio dal medesimo vantato”: il diritto della società civile connessa ad informarsi, in questo caso, pesa più del diritto del cittadino a vedere dimenticato un passato scomodo.

E la scomodità e i giudizi di merito rispetto al passato, ha ricordato il giudice in una nota ficcante, non hanno nulla a che vedere con Google, semplice gatekeeper dell’informazione prodotta da terzi . Il ricorrente, si sottolinea nella sentenza, non può “dolersi della falsità delle notizie riportate dai siti visualizzabili per effetto della ricerca a suo nome, non essendo configurabile alcuna responsabilità al riguardo da parte del gestore del motore di ricerca (nella specie Google), il quale opera unicamente quale “caching provider” ex art. 15 d.lgs. n. 70/2003″. La diffamazione, in sostanza, non è affar di Google: l’eventuale lesione dei diritti alla reputazione e alla riservatezza inferta dall’informazione messa in circolazione dai siti che il motore di ricerca si limita a rendere più facilmente raggiungibili si sarebbe dovuta lamentare nei confronti dei gestori dei siti.

“È una sentenza importante non solo per l’autorità della fonte, ma anche per la chiarezza del ragionamento e la coerenza con le indicazioni fornite dal Garante italiano e dal Working Party sul bilanciamento di interessi tra il diritto all’oblio e l’interesse pubblico all’informazione”, riferisce a Punto Informatico l’ avvocato Massimiliano Masnada , counsel dello studio Hogan Lovells che ha affiancato Google nel corso del procedimento. “Troppo spesso il diritto all’oblio viene considerato un rimedio per i casi di possibile diffamazione”, rileva Masnada, e le cronache globali non fanno che ricordarlo: “ovviamente, come chiarito dal Tribunale di Roma, in tal caso non è questa la strada da seguire”.

Gaia Bottà

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Pubblicato il
14 dic 2015
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