Uber, finta app per sviare le indagini?

Uber, finta app per sviare le indagini?

La startup del car sharing avrebbe adottato da anni un sistema per ingannare le forze dell'ordine nei Paesi dove le sue attività sono almeno in parte ostacolate
La startup del car sharing avrebbe adottato da anni un sistema per ingannare le forze dell'ordine nei Paesi dove le sue attività sono almeno in parte ostacolate

Uber avrebbe utilizzato per almeno tre anni un programma a livello mondiale per ingannare le autorità e sviare i controlli in quei Paesi dove il suo servizio è limitato o completamente bandito.

La notizia rappresenta l’ultimo colpo di scena nella già movimentata storia degli scontri di Uber con le autorità di mezzo mondo. Mentre prosegue il confronto con la Corte di Giustizia dell’Unione Europea per inquadrala come semplice app o come vero e proprio servizio di trasporto, la sua regolamentazione in Italia ha ricevuto un improvviso stop a seguito delle proteste dei tassisti di Roma. Più in generale, le varie autorità locali – in attesa di approfondire la situazione della startup – hanno adottato misure particolarmente restrittive nei suoi confronti, come Parigi che ha bloccato le sue auto.

L’app ha dunque pensato di correre ai ripari adattando, almeno dal 2014, una tecnologia per aggirare i controlli delle forze dell’ordine e i conseguenti limiti imposti dalle mobilitazioni dei tassisti e dall’ampia regolamentazione del settore dei trasporti. Per farlo ha avviato un programma chiamato VTOS, acronimo di “Violation of Terms Of Service”, con il quale ha creato un root per escludere le connessioni ritenute improprie al servizio e sviarle su una finta versione dell’app.

Tutto ciò sarebbe stato possibile grazie a uno strumento chiamato Greyball, attraverso il quale la startup avrebbe raccolto dati sui propri utenti in modo da identificare le forze dell’ordine.

Uber avrebbe utilizzato tale programma in città come Boston, Parigi e Las Vegas e in Paesi come Australia, Cina e Corea del Sud. In pratica, i dati raccolti venivano incrociati per individuare la Polizia che camuffata da utenti andava a caccia delle sue auto, fornendo loro una versione civetta del servizio fatta di falsi avvisi di disponibilità e finte offerte di passaggi. Già nel 2014 un ufficiale della Polizia di Portland aveva notato e testimoniato tale discrepanza dei dati forniti dall’app al suo dispositivo e la realtà osservata, situazione che rendeva impossibile seguire i movimenti delle auto.

Non si tratta tra l’altro né dell’ultimo problema per Uber (coinvolta anche in accuse circa il lavoro svolto al suo interno da parte di un’ex dipendente ), né delle prime critiche mosse alla startup relativamente alla gestione dei dati raccolti durante le corse degli utenti: lo scorso dicembre un ex consulente dell’azienda aveva affermato che la stessa permetteva ai propri dipendenti di accedere ai dati degli utenti. Il caso sembrava direttamente collegato alla cosiddetta God’s View , modalità di utilizzo dell’app che consentirebbe di tracciare gli spostamenti di qualsiasi utente e che è già stata messa al centro di diverse indagini da parte, in primis , delle autorità a stelle e strisce.

Claudio Tamburrino

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Pubblicato il
6 mar 2017
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