Internet e il mito del copyright

Internet e il mito del copyright

di Karl Fogel (trad. e sintesi: Blogmatic.net) - La lotta delle major non è tesa a mettere fine al file sharing ma serve invece a conservare uno stato mentale, dove copiare equivale a rubare
di Karl Fogel (trad. e sintesi: Blogmatic.net) - La lotta delle major non è tesa a mettere fine al file sharing ma serve invece a conservare uno stato mentale, dove copiare equivale a rubare


Roma – Le aziende discografiche non si preoccupano se vinceranno o perderanno i processi. A lungo termine, nemmeno si aspettano di eliminare il file sharing. Ciò per cui esse combattono è molto più grande. Combattono per mantenere uno stato mentale , un’attitudine verso il lavoro creativo, la quale dice che qualcuno deve possedere i prodotti della mente e controllare chi può copiarli. E l’industria ha avuto un successo sorprendente posizionando il tutto come una contesa tra gli Artisti Assediati , che si suppone abbiano bisogno del copyright per pagare l’affitto, e le Masse Irragionevoli , che vorrebbero copiare una storia o una canzone da Internet invece che pagare un prezzo adeguato. Essi sono riusciti a sostituire i termini caricati pirateria e furto al più preciso copia : come se non ci fosse differenza tra rubare la tua bicicletta (adesso tu non hai più la bicicletta) e copiare la tua canzone (adesso tutti e due abbiamo la canzone).

La prima legge sul copyright fu una legge di censura . Essa non aveva niente a che fare con la protezione dei diritti degli autori, o con il loro incoraggiamento a produrre nuove opere. Il copyright è un sottoprodotto della privatizzazione della censura governativa nell’Inghilterra del sedicesimo secolo. L’arrivo della macchina per stampare (la prima macchina per copiare del mondo) era qualcosa che stimolava gli scrittori. Così stimolante, infatti, che il governo inglese cominciò a preoccuparsi per le troppe opere che venivano prodotte, non troppo poche. La nuova tecnologia, per la prima volta, stava rendendo ampiamente disponibili letture sediziose ed il governo aveva bisogno urgente di controllare il fiume di materiale stampato. Il risultato fu quello di consentire un particolare modello di business – la stampa di massa con distribuzione centralizzata – per rendere disponibili poche opere fortunate ad un’udienza più ampia, con considerevole profitto dei distributori.

Gli Stationers basarono la loro strategia su un riconoscimento decisivo, che è rimasto da allora alle aziende editoriali fino a oggi: gli autori non hanno i mezzi per distribuire le proprie opere. Scrivere un libro richiede solo penna, carta e tempo. Ma la distribuzione di un libro richiede presse per la stampa, reti di trasporto ed investimenti iniziali in materiali e macchine compositrici. Il copyright fu progettato dai distributori per sovvenzionare se stessi, non i creatori .

Oggi, però, il mezzo su cui vengono distribuiti i contenuti può essere del tutto diverso da quello utilizzato al momento della fruizione ultima del contenuto. I dati possono essere trasmessi su cavo a costo essenzialmente zero e l’utente, che si trova dall’altra parte del cavo, può stampare la copia di un’opera a proprie spese e con la qualità che può permettersi.

Da un punto di vista della distribuzione non vi è differenza tra testo e musica e appena la tecnologia per la stampa e la rilegatura diverrà più economica, gli autori di libri vedranno molto più chiaramente che essi hanno le stesse alternative di cui dispongono nell’immediato i musicisti, e il risultato sarà lo stesso: sempre più materiale disponibile senza restrizioni , a partire dalla scelta dell’autore.

L’arrivo di Internet, con la sua distribuzione istantanea a costo zero, ha reso obsoleto quel modello di business. La proibizione al popolo di condividere liberamente informazioni non serve a nessun altro interesse che a quello degli editori.

Per la grande maggioranza degli artisti il copyright non porta alcun beneficio economico. Vero, ci sono poche star – alcuni dei quali con grande talento – le cui opere sono appoggiate dall’industria; essi ricevono la parte del leone dell’investimento in distribuzione e in modo analogo generano il profitto più grande, che viene condiviso con l’artista in termini migliori dell’usuale, perché la posizione contrattuale dell’artista è più forte. In modo per niente incidentale, queste star sono quelli che l’industria sostiene come esempi dei benefici del copyright. Ma trattare questi piccoli gruppi come rappresentativi vorrebbe dire confondere il marketing con la realtà. La vita della maggior parte degli artisti non appare per niente simile alla loro e mai lo sarà nell’attuale sistema basato sul profitto. Ecco perché lo stereotipo dell’artista impoverito rimane vivo e vegeto dopo trecento anni.

Copiare non è furto e non è pirateria . E’ ciò che abbiamo fatto per millenni, fino all’invenzione del copyright, e possiamo farlo di nuovo, se non ci intralciamo da soli con gli antiquati residui di un sistema di censura del sedicesimo secolo.

Quanto pubblicato qui sopra è una sintesi realizzata da Blogmatic di un più lungo commento di Karl Fogel intitolato “Le promesse di un mondo post-copyright”

Per leggere il commento completo di Karl Fogel, in inglese, clicca qui

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Pubblicato il
2 apr 2004
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