Il cellulare ci spia

Il cellulare ci spia

di Marina Mirri. I dati che gli operatori telefonici possono raccogliere non appartengono loro. Non riguardano il loro mestiere e non sono compresi nel contratto
di Marina Mirri. I dati che gli operatori telefonici possono raccogliere non appartengono loro. Non riguardano il loro mestiere e non sono compresi nel contratto


Roma – Dunque è probabile che la mia compagnia telefonica conservi i log degli spostamenti del mio telefono cellulare (e quindi anche miei) degli ultimi anni. Con una precisione di alcune centinaia di metri, chi accedesse a questi dati potrebbe seguire le tracce delle mie peregrinazioni in Italia o all’estero da molto tempo ad oggi.

E’ molto probabile che sia così, anche se nessuno lo dice chiaramente. Informazioni in questo senso, mormorate sottovoce da tempo, vengono oggi più chiaramente alla luce dalla inchiesta del Guardian sull’operatore di telefonia cellulare inglese Virgin Mobile e davvero non si comprende perché mai in Italia gli operatori telefonici dovrebbero comportarsi diversamente da quelli britannici.

In attesa di improbabili smentite ho una prima domanda. Chi sono gli operatori telefonici oggi? Che mestiere fanno?

Sembra una domanda banale.

Le nuove tecnologie vivono oggi, per loro stessa caratteristica, un caos di regole e comportamenti completo. La tecnologia ai nostri giorni assomiglia sempre di più a un mostro a più teste dove nessuna sa mai cosa stia combinando l’altra. E’ perfino difficile capire quante queste teste siano. Tanto più difficile appare cercare di dettare anche semplici regole di comportamento.

Gli operatori telefonici vendono comunicazione. Che questa sia vocale, testuale o altrimenti distribuita non è importante; ci forniscono, in cambio di soldi, “un filo”. O meglio una delle teste ci fornisce il filo mentre un’altra, senza alcuna malizia e con la neutralità delle macchine, segue i nostri spostamenti. Un’altra ancora, forse, archivia le nostre parole. E altre ancora forse stanno facendo in questo momento cose che nemmeno immaginiamo.

Altre teste, più intelligenti o semplicemente meglio organizzate, sono in preparazione: chiunque abbia letto qualcosa sull’m-commerce, sa che molte delle speranze commerciali in tal senso in ambito 3G passano attraverso la possibilità di localizzazione fisica dei terminali e di archiviazione dei gusti personali degli utenti. Il telefonino al nostro servizio! Passiamo per una strada di una città sconosciuta e il telefono ci segnala che nel negozio all’angolo hanno una bottiglia di quel vino che cercavamo l’anno scorso. Non è fantastico?

No, forse non lo è completamente.

E’ curioso leggere, nell’articolo del Guardian, come in Inghilterra – un paese che del controllo sta facendo una vera e propria religione nazionale – ogni operatore telefonico si comporti a sua discrezione per la raccolta dei dati sensibili. C’è chi li archivia per due anni, chi per molto di più, chi per uno solo. Qualcuno semplicemente rifiuta di rispondere.

E’ un momento non ideale per dirlo e l’emozione del dopo 11 settembre sta condizionando un po’ tutti, ma i dati che tecnicamente gli operatori telefonici (ma anche gli ISP) possono oggi raccogliere non appartengono loro. Non riguardano il loro mestiere e non sono compresi nel contratto che ognuno di noi stipula quando accende una utenza cellulare o stipula un contratto di accesso a Internet. Archiviare la posizione del mio telefono cellulare in un sabato piovoso di 4 anni fa non rientra fra le facoltà della mia compagnia telefonica.

Certo questi dati, incidentalmente, vengono comunque archiviati, ed esiste in tutto il mondo un dibattito molto ampio su quale debba o possa esserne il loro utilizzo. Si tratta di un dibattito strano, come una partita a carte con il morto che in molti giocano accanitamente, dove il morto è sempre e solo il comune cittadino, stretto fra le voglie di controllo delle autorità (per le quali tecnologia oggi fa rima con nuove possibilità di pedinamento – una specie di vecchio sogno che si avvera, quello di sapere tutto di tutti in tempo reale) e dell’industria (per la quale la tecnologia è invece un banale ma potentissimo strumento per vendere di più e comunicare meglio le proprie offerte). Un dibattito dove chi prova a sostenere il diritto al controllo sui propri dati è alternativamente “qualcuno con qualcosa da nascondere”, un “anarchico scapestrato” o un “fiancheggiatore dei terrorismi più vari”.

E spiace constatare come, se si esclude qualche organizzazione sensibile a tali problematiche e qualche politico illuminato, il problema del diritto alla privacy interessi pochissimo in concreto ciascuno di noi. Gli attentati dell’11 settembre hanno aiutato a sfondare una porta aperta: con la scusa della sicurezza nazionale, tutti i paesi occidentali si stanno attrezzando con nuove legislazioni in materia di controllo. Non serviranno molto nei confronti dei terroristi, anzi secondo alcuni non serviranno assolutamente a nulla. Avremo però l’illusione di una nuova sicurezza e magari la scia di bit che lasciamo dietro di noi (che si ingigantisce sempre più e che qualcuno indisturbato raccoglie) servirà lo stesso a qualcuno. Quello che è certo è che quel qualcuno non sarà, in ogni caso, nessuno di noi…

Marina Mirri

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Pubblicato il
2 nov 2001
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