Unique ID, Microsoft ha ragione

Unique ID, Microsoft ha ragione

Una Corte d'Appello americana conferma che l'identificativo unico inserito nei software non viola un brevetto rivendicato da uno sviluppatore statunitense. Legittimo inserirlo ovunque
Una Corte d'Appello americana conferma che l'identificativo unico inserito nei software non viola un brevetto rivendicato da uno sviluppatore statunitense. Legittimo inserirlo ovunque


Washington (USA) – Identificare un software con un numero identificativo unico, inserire quei numeri in un database mantenuto in rete e sfruttarlo per tenere traccia della diffusione e dell’utilizzo dei propri software non viola alcun brevetto .

Lo ha ribadito la Corte d’Appello federale americana dando così ragione a Microsoft in un procedimento intentato da uno sviluppatore, detentore del brevetto 6,449,645 . Kenneth Nash, avvocato che gestisce i diritti di quel brevetto, asseriva che l’azienda lo violava avendo attivato un meccanismo, peraltro piuttosto conosciuto, di identificazione univoca dei software .

Il brevetto riguarda “un sistema ed un metodo per individuare e localizzare l’uso improprio o illecito delle informazioni digitali, come la pirateria, la copia, l’alterazione e simili. L’informazione digitale può comprendere software, musica digitale, film digitali, multimedia e dintorni e può essere piazzata sul computer dell’utente ma anche copiata su altri computer”.

In ballo con questo procedimento non erano soltanto le politiche Microsoft in materia, perlopiù studiate per colpire proprio l’uso pirata dei propri prodotti, ma anche quelle di numerose altre imprese , che sfruttano lo unique ID per l’attivazione da remoto dei prodotti. Se Nash avesse vinto, avrebbe probabilmente chiesto royalty su queste pratiche a tutti i maggiori produttori di software.

A “salvare” Microsoft e gli altri big del settore, la definizione di riconoscimento “automatico” del numero ID. Microsoft ha infatti dimostrato con successo che la propria product activation è una procedura che richiede il diretto coinvolgimento dell’utente, che deve accettarla e lanciarla, via Internet o via telefono, per poter utilizzare i prodotti.

Nella loro decisione ( qui il pdf) i giudici di primo grado, la cui sentenza è stata confermata ora in appello, scrivono: “La Corte considera la richiesta di una risposta esplicita (…) una preclusione a considerare il procedimento come automatico”.

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Pubblicato il
29 mar 2006
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