Nel 2015 il mercato dello streaming musicale si è schierato con servizi attesi come Apple Music e il panorama statunitense, tratteggiato con i dati diffusi da RIAA, presenta novità, ma nessuna sorpresa.
Le premesse gettate nel primo semestre dell’anno trascorso sono dunque state confermate dai dati di fine 2015 : lo streaming, superando per la prima volta il fatturato dei download digitali, rappresenta il 34 per cento del fatturato dell’industria musicale statunitense, la fetta più sostanziosa di una torta da 7 miliardi di dollari. Il comparto dello streaming supera i 2,4 miliardi di dollari, in crescita del 29 per cento rispetto al 2014 anche grazie all’ ingresso sul mercato di nuovi soggetti come Apple Music e al trend costantemente positivo di servizi come Spotify.
A contribuire in maniera determinante al fatturato raccolto dal settore sono gli abbonamenti : valgono 1,2 miliardi di dollari, in crescita del 52 per cento rispetto al 2014. Nonostante la possibilità di approfittare delle offerte gratuite dei modelli freemium, le sottoscrizioni non accennano a rallentare, anzi: complici soluzioni come Apple Music, Tidal o gli esperimenti a pagamento di YouTube, su cui mercato e utenti riversavano le proprie aspettative, ma anche il consolidamento di servizi come Spotify, che sanno convincere gli utenti della validità della propria proposta a pagamento, la media degli abbonati per il 2015 è pari a 10,8 milioni di utenti (+ 40 per cento rispetto al 2014).
A soffrire dell’avanzata dello streaming sono le soluzioni di download, come già rilevato nelle precedenti analisi di mercato: i download negli USA sono stati scalzati dalla prima posizione per fatturato (-10 per cento, a quota 2,3 miliardi) ma questo declino, compensato dallo streaming, non ha impedito all’intero comparto del digitale di continuare a crescere: per il 2015 si è registrato un aumento di fatturato del 6 per cento, a raggiungere i 4,8 miliardi di dollari , a fronte dei 2 miliardi di dollari di valore per la musica distribuita su supporto fisico.
A soffrire dell’avanzata dello streaming, inoltre, sono gli artisti , non perde occasione di sottolineare il CEO di RIAA Cary Sherman: “Il consumo di musica sta esplodendo, ma le entrate per i creatori non tengono il passo”. “Nel 2015 – osserva Sherman – i fan hanno ascoltato centinaia di miliardi di flussi audio e video su piattaforme on demand supportate dalla pubblicità come YouTube, ma le entrate provenienti da questi servizi sono state magre, decisamente meno consistenti rispetto a altri tipi di servizi musicali”.
La responsabilità, denuncia il CEO di RIAA, sarebbe da attribuire a “certi giganti della tecnologia che si sono arricchiti ai danni delle persone che creano la musica” approfittando di “leggi e regolamentazioni datate” che permettono loro di evitare di pagare per la musica, o di retribuire i detentori dei diritti molto meno di quanto spetterebbe loro. Sherman cita fra l’altro il “sistema di notice e takedown del DMCA”, che molte piattaforme avrebbero “piegato a proprio vantaggio per rastrellare miliardi di dollari” approfittando dei caricamenti dei propri utenti e dell’esenzione di responsabilità riconosciuta agli intermediari: il CEO di RIAA descrive queste dinamiche come comportamenti che distorcono l’andamento del mercato , paragonando i 385 milioni di dollari di fatturato spremuto dallo streaming basato sulla pubblicità con il fatturato afferente a un mercato di nicchia come quello del vinile, 416 milioni di dollari per 17 milioni di album venduti negli States.
Se quello a cui RIAA fa riferimento per denunciare le “iniquità” delle piattaforme di streaming è un modello che ha dominato il secolo scorso, replica YouTube reagendo alle parole di Sherman, forse le “distorsioni” operate sul mercato non sono che una fisiologica evoluzione.
Gaia Bottà