Informazioni sul patrimonio genetico, ma nessun dettaglio relativo a quello che l’analisi suggerisce riguardo allo stato di salute dell’utente: 23andMe, la discussa startup supportata da Google che offre test del DNA in cambio di un campione di saliva e di 99 dollari ha incassato la richiesta della Food and Drug Administration statunitense e ha sospeso le proprie attività diagnostiche.
Falsi positivi, errori nelle consegne dei referti , promesse disattese riguardo all’adeguamento a migliori standard di affidabilità: questo aveva spinto la FDA ad avviare le proprie indagini a ad intimare a 23andMe di bloccare le proprie attività fino a che non si sia fatta chiarezza, anche in vista di un più attento monitoraggio del mercato dell’analisi del genoma, che sappia stare al passo con i tempi e l’evolvere delle tecnologie.
Ora il servizio ha accolto le richieste dell’autorità statunitense: la pubblicità è stata interrotta , sono state interrotte le analisi del genoma che offrono risultati relativi alla salute per coloro che abbiano acquistato il test dopo il 22 novembre. Ma i kit per i test sono ancora disponibili, affinché gli utenti possano richiedere un’analisi che fornisca i soli dati grezzi sul patrimonio genetico, senza interpretazione medica, e le informazioni elaborate riguardo ai legami di parentela.
Anne Wojcicki, fondatrice dell’azienda, promette che 23andMe “lavorerà sodo per assicurarsi che i consumatori abbiano accesso diretto alle informazioni relative alla salute in un futuro prossimo”, collaborando con la FDA affinché la situazione si sblocchi, e coglie l’occasione per rassicurare gli utenti riguardo ai severi standard a cui l’azienda già aderisce, che garantiscono un’accuratezza nell’analisi dei dati che supera il 99,9 per cento.
Ma è soprattutto contro l’elaborazione dei referti che ha mosso la FDA, e con essa una cittadina statunitense che vorrebbe ottenere un minimo di 5 milioni di dollari: servirebbero a compensare le “decine o centinaia di migliaia” di consumatori che si sarebbero lasciati sedurre da quella che, alla luce delle preoccupazioni delle autorità degli States, si configurerebbe come “pubblicità ingannevole”.
Gaia Bottà