Potrà essere qualche minuto di piacevole filosofeggiare, oppure potrà essere vista come una questione fondamentale di principio, ma l’approfondimento offerto dall’Accademia della Crusca a proposito dell’uso dello Schwa “o di altri segni che opacizzano le desinenze maschili e femminili” nella lingua italiana è qualcosa di estremamente interessante da cogliere. Lo è perché pone al centro la questione linguistica proprio in un momento nel quale la lingua è più che mai tirata per il colletto nel tentativo di forzarne le regole in modo poco naturale e troppo repentino rispetto ai canonici tempi di accettazione di usanze che dovrebbe essere prima di tutto culturali e solo in seconda battuta afferenti a lingua parlata e formalismi grammaticali.
Schwa e dirigismo linguistico
Laddove la società vuol dibattere di identità di genere, insomma, l’Accademia della Crusca tenta di tenere fuori la lingua da questo discorso per evitare che siano decisioni a tavolino ad imporre regole a quella che è anzitutto una convenzione sociale. La premessa dell’Accademia è dunque l’aspetto centrale dell’approfondimento:
Per impostare correttamente la questione dobbiamo dire subito che il genere grammaticale è cosa del tutto diversa dal genere naturale. Lo rilevavano nel 1984, a proposito del francese, Georges Dumézil e Claude Lévi-Strauss […]. Non entriamo qui nella tematica della distinzione tra sesso biologico e identità di genere […]; ci limitiamo a ricordare che negli studi di psicologia e di sociologia il genere indica l’“appartenenza all’uno o all’altro sesso in quanto si riflette e connette con distinzioni sociali e culturali” […]; tale accezione del termine, relativamente recente, è calcata su uno dei significati del corrispondente inglese gender, quello che indica appunto l’appartenenza a uno dei due sessi dal punto di vista culturale e non biologico (gli studi di genere o gender studies sono nati negli Stati Uniti negli anni Settanta, su impulso dei movimenti femministi).
Il primo punto da smarcare è dunque la dissociazione tra il genere grammaticale e quello naturale:
È indubbio che, in particolare quando ci si riferisce a persone, si tenda a far coincidere le due categorie (abbiamo coppie come il padre e la madre, il fratello e la sorella, il compare e la comare, oppure il maestro e la maestra, il principe e la principessa, il cameriere e la cameriera, il lavoratore e la lavoratrice, ecc.), ma questo non vale sempre: guida, sentinella e spia sono nomi femminili, ma indicano spesso (anzi, più spesso) uomini, mentre soprano e contralto sono, tradizionalmente almeno (oggi il femminile la soprano è piuttosto diffuso), nomi maschili che da oltre due secoli si riferiscono a cantanti donne […]
Il problema dell’Italiano sta nel fatto che il genere è profondamente connaturato al modo di comporre una frase, coinvolgendo tanto il pronome quanto il verbo. Proporre superficialmente un genere neutro non è dunque qualcosa di accettabile se non soverchiando le regole stesse della lingua, peraltro in modo del tutto artificioso:
Chi propone di far ricorso al neutro per rispettare le esigenze delle persone che si definiscono non binarie, citando il latino, non tiene presente da un lato che l’italiano, diversamente dal latino, non dispone di elementi morfologici che possano contrassegnare un genere diverso dal maschile e dal femminile, dall’altro che in latino (e in greco) il neutro non si riferisce se non eccezionalmente a esseri umani.
Del tema si è ovviamente discusso molto online, dove il dibattito è più fervente e continuo rispetto agli editoriali monocratici della carta stampata, ma scivolando in quello che l’Accademia descrive come un “dirigismo linguistico” destinato solitamente ad avere impatti di breve periodo e scarsa utilità generale. Il motivo sta nelle dinamiche stesse che definiscono il linguaggio, partendo dall’oralità e arrivando allo scritto:
ogni lingua, a meno che non si tratti di un sistema costruito a tavolino come sono le lingue artificiali (un esempio ne è l’esperanto), è un organismo naturale, che evolve in base all’uso della comunità dei parlanti: è vero che molte lingue hanno subìto un processo di standardizzazione per cui, tra forme coesistenti in un certo arco temporale, alcune sono state selezionate, considerate corrette e destinate allo scritto e all’uso formale e altre censurate e giudicate erronee, o ammesse solo nel parlato o in registri informali e colloquiali; ma in questo processo la scelta (che può anche cambiare nel corso del tempo) avviene sempre nell’àmbito delle possibilità offerte dal sistema.
L’Accademia della Crusca, insomma, non vede di buon occhio l’avvento di asterischi e Schwa perché togliere il genere dalla lingua italiana significa lasciarla sospesa e confusa, sradicata dai suoi paradigmi base. Il problema creato sarebbe ben più ampio di quello risolto, fermo restando che – come ribadito a più riprese le regole del parlato non si possono imporre: devono emergere da un carattere culturale condiviso.
Confondere il problema sociale con quello linguistico non aiuterà a sbrogliarne la matassa, anzi. Per chi fosse interessato l’approfondimento dell’Accademia nella sua versione integrale è qui.