Durante l’evento dedicato al settore dei contenuti online Digital Content NewFronts i video advertising distribuiti online sono finiti al centro del dibattito: a quanto pare non sarebbero visti quasi da nessuno e sarebbero associati a contenuti che poco hanno a che fare con il prodotto che sponsorizzano.
Secondo alcuni pubblicitari , nello scorso anno il 40 per cento dei video advertising online non sarebbero stati visualizzati dagli utenti: un problema di offerta dello spazio di pubblicazione, di mercato dell’advertising online, nonché di modalità di fruizione da parte degli utenti. A dirlo è in particolare lo studio dal The Gret Unwatched che vede la partecipazione di diverse aziende di advertising online tra cui BrightRoll e Vindico e del direttore dell’ Insights and Analytics Solutions Center della Kellogg, Aaron Fetters.
Il mezzo dei pre-roll (quelli mostrati prima di un contenuto video), per esempio, viene aggirato ormai in automatico dagli utenti: mentre un video si carica o le attese pubblicità finiscono, provvedono a fare altre operazioni di routine, come controllare le email, sfogliare i social network ecc.
Oltre a questo, mancano i dati a dimostrazione dell’efficacia di questa forma di pubblicità: l’inserzionista può solo sapere se un determinato video viene trasmesso, non se l’utente lo sta effettivamente guardando. Così, anche se sulla carta i numeri fossero positivi, la realtà potrebbe essere ben diversa.
Nonostante questa incertezza i video advertising online continuano a riscuotere un assoluto successo da parte della domanda: solo nel 2013 sono stati spesi 2,8 miliardi di dollari, il doppio di quanto speso nel 2010 .
Durante il corso della conferenza, però, a scoperchiare il vaso di Pandora del posizionamento dei video advertising è stato il racconto dall’azienda Blue Chip, che ha incaricato una ditta che si occupa di analisi dell’advertising, BrandAds, di scoprire dove la sua pubblicità (relativa ad un prodotto dedicato alle mamme) fosse visualizzata: il risultato è stato negativamente sorprendente, essendo l’advertising finito anche su siti pornografici, in lettori in gran parte più piccoli di quelli per cui era stato pensato e in autoplay, una formula esplicitamente rifiutata dall’inserzionista.
La questione dell’efficacia della scelta dell’advertising online resta isomma complessa: a complicarla, peraltro, certi presunti comportamenti dei grandi intermediari online. Secondo un individuo che si idetifica come ex dipendente di Google, Mountain View ruberebbe soldi attraverso AdSense. La testimonianza, divulgata in forma anonima su Pastebin , accusa Google di istruire i suoi dipendenti a bannare gli account gli editori di contenuti vicini ad ottenere un pagamento (che scatta al raggiungimento di una determinata soglia) per le pubblicità visualizzate attraverso le sue pagine.
Google, naturalmente, ha smentito categoricamente la notizia, sottolineando come anche altre informazioni offerte dalla fonte circa il funzionamento di AdSense fossero completamente sbagliate .
Claudio Tamburrino