Roma – Il giorno 8 febbraio, ore 18.00, presso il Museo Laboratorio di Arte Contemporanea dell’Università di Roma “La Sapienza” è stata inaugurata la mostra AHA:Activism-Hacking-Artivism, a cura di Tatiana Bazzichelli . I concetti principali di AHA-making art doing multimedia, sono Activism = attivismo politico, Hacking = attivismo tecnologico, Artivism = attivismo artistico.
La mostra AHA vuole evidenziare un percorso collettivo, frutto di un movimento che dai primi anni ottanta si batte per un uso indipendente e autogestito dei media (video, computer, radio e testi scritti) e che oggi sta dimostrando sempre più di essere una valida alternativa all’informazione ufficiale.
AHA sarà attiva fino al primo marzo presso il MLAC, Museo Laboratorio d’Arte Contemporanea, La Sapienza, Roma, Piazzale Aldo Moro 5; lun-ven ore 10.00-20-00 ( Sito del MLAC .
Per capirne di più, Punto Informatico ha incontrato Tatiana Bazzichelli.
Punto Informatico: La mostra che hai curato e che si chiude il primo marzo è la prima a mettere insieme in modo creativo queste tre forme di attivismo. Perché “AHA: Activism-Hacking-Artvism” ?
Tatiana Bazzichelli: La mostra/evento AHA, Activism, Hacking, Artivism (making art doing multimedia) vuole mettere in luce come, attraverso il concetto di autogestione mediatica, si possa organizzare la propria mappa critica della realtà, originando processi artistici contaminabili e strategie comunicative capaci di fare autonomamente informazione.
Il visual del progetto è il tubetto della colla UHU di qualche tempo fa, il cui nome è stato trasformato in AHA , che sta per Activism, Hacking, Artivism , tre forme di attivismo (politico, tecnologico e artistico) che mettono in primo piano la volontà di gruppi e individui di creare in maniera indipendente informazione, comunicazione e arte.
La frase “making art doing multimedia”, racchiude in sé l’idea che anche l’arte può essere considerata una pratica reale , se percepita come una modalità d’azione e una possibilità di costruzione attiva del presente (processo sicuramente favorito dall’uso integrato dei diversi media nell’ambito artistico). In questo modo, l’arte va a toccare direttamente le dinamiche sociali e il mondo reale, e non quello che perpetua se stesso all’interno delle gallerie d’arte, spesso nate per portare avanti interessi familistici.
PI: Perché la UHU?
TB: L’idea di utilizzare la “colla AHA” è nata con l’intenzione di esprimere i concetti di costruire, fare, concretizzare in maniera diretta i propri obiettivi “sporcandosi le mani”, attività che ben rappresentano il più specifico concetto di autogestione: auto-gestire , dare vita a qualcosa autonomamente a partire dal proprio gesto, dall’azione concreta, spesso utilizzando mezzi poveri per produrre ciò che, inserito nelle logiche di mercato, viene caricato di un plusvalore fittizio.
L’idea di “smanettare” è poi propria del concetto di hacking , dell’idea di concepire la tecnologia come qualcosa da smontare e rimontare, da osservare dall’interno in maniera critica, per trasformarla in un processo aperto, condivisibile e contaminabile da tutti. PI: I tre concetti alla base di AHA si possono davvero considerare “ambienti” diversi e separati?
TB: Le tre pratiche dell’ Activism, Hacking e Artivism , danno vita ad un collage visivo e sonoro all’interno di AHA: la loro integrazione nell’ambiente espositivo è data dalla proiezione nella sala di materiale video, dall’ascolto di file audio, dalla navigazione su determinati siti, dalla lettura di materiale informativo sul mediattivismo.
È naturalmente una forzatura dividere in tre filoni “concettuali” queste modalità di azione, proprio perché non esiste una così profonda linea di demarcazione fra chi fa “activism”, “hacking” o “artivism”?anche l’attivismo politico è spesso una forma d’arte (come, a mio parere, lo sono i vari video sulle passate manifestazioni di Genova proiettati nel museo: Solo Limoni , Supervideo G8 , Genova 2001-aggiornamento 1 ).
Allo stesso modo, l’hacking può essere una forma di attivismo politico (se si pensa alle forme di hackeraggio sociale, all’idea di rendere la tecnologia free e accessibile a tutti), oppure di attivismo artistico (si veda per esempio il sito www.hackerart.org , il sito www.dyne.org e il sito www.strano.net , oppure direttamente i video sull’hacking e l’hacker art proiettati nel museo in base alla programmazione di AHA ).
Ugualmente, se si genera una commistione fra arte e attivismo, ci si sposta verso un’idea “performativa” del fare arte. L’arte diviene il più delle volte il creare contesti di scambio, cosa che può aver luogo attraverso l’interazione con un’installazione, una performance oppure, allargando ancor più il concetto, nella creazione orizzontale di un evento collettivo (per esempio un hackmeeting ).
Di conseguenza, l’idea portante di AHA è quella di unire tali pratiche con un “collante” all’interno del più vasto concetto di media attivismo, per evidenziare anche a chi è meno “pratico”, il fatto che da anni esiste un movimento che porta avanti le proprie idee, la propria visione del reale, cercando di svelare criticamente i retroscena di questo reale/immaginario, secondo modalità indipendenti e autogestite.
PI: Cosa emerge nella mostra dell’uso delle tecnologie dell’informazione, vecchie e nuove, da parte del movimento, o forse meglio dei movimenti, che l’hanno ispirata?
TB: L’idea di AHA nasce come riflessione sull’attuale uso della tecnologia in forma indipendente e autogestita da parte del movimento, con uno sguardo anche verso il decennio passato, che ha posto le basi delle pratiche di oggi.
Questa riflessione parte dalle manifestazioni di luglio contro il vertice del G8 di Genova e dalle proteste avvenute negli ultimi mesi ad opera di un movimento che contesta i meccanismi di progressiva “commercializzazione” dei diritti umani, attuati nell’ottica di un paventato benessere mondiale. Anche se apparentemente ciò che è rimasto a testimonianza di quei giorni è stata una dura repressione (cosa che purtroppo anche in questi giorni è ritornata attuale con il sequestro del materiale video di Indymedia Italia sui giorni di Genova), in realtà è emerso un importante fattore: la capillare capacità del movimento di portare avanti le proprie idee attraverso un uso consapevole e autogestito dei media.
Gli stessi media ufficiali hanno in prima istanza attinto ai media indipendenti per avere il proprio materiale da diffondere, la presenza di numerose telecamere amatoriali durante le manifestazioni ha evidenziato il bisogno-desiderio di riportare certi avvenimenti attraverso un occhio critico e non strumentalizzato. Anche per chi non è stato presente ai cortei c’è stata la possibilità di seguire in tempo reale gli avvenimenti, attraverso alcuni siti internet (per es. Indymedia Italia , Isole nella Rete , Tactical Media Crew ), un circuito di radio indipendenti ( Radio GAP ), e questo è avvenuto con pochi mezzi a disposizione e secondo modalità comunicative diffuse in maniera capillare.
Oggi tutto questo è una realtà, ma la capacità di autogestire consapevolmente i media, in maniera indipendente e dal basso, non è una novità di questi mesi.
Già dagli anni Settanta, ma in Italia soprattutto dagli anni Ottanta, nei circuiti di movimento si è portato avanti il discorso di collettivizzare la tecnologia e di produrre informazione dal basso: processo nato con la diffusione delle macchine fotocopiatrici che ha permesso di realizzare le fanzine autogestite, con la diffusione dei computer e del modem che ha portato alla nascita delle prime BBs amatoriali, con lo sviluppo della tecnologia digitale che ha portato alla progressiva integrazione dei mezzi audio, video e rete. Dalla riflessione sull’integrazione mediatica nei circuiti di comunicazione indipendente, nasce l’idea di realizzare una mostra in cui vengono associati percorsi collettivi che sfruttano attivamente i media, al fine di presentare la realtà del presente attraverso un occhio vigile, un occhio che cerca di costruire azioni invece che rappresentazioni del reale.
Questo è, in sintesi, quello che la mostra vuole comunicare? soprattutto però vuole essere percepita come un “processo aperto”, in cui coevolvono diverse esperienze, azioni e obiettivi di chi si adopera per una comunicazione politica-tecnologica-artistica indipendente.
PI: Presentando la mostra hai parlato di uso critico del “digital media”,a scopo artistico e come strumento di azione collettiva, “non più operema processi, non più originalità ma riproducibilità”. Cosa intendi?
Il discorso dell’uso critico e autogestito dei media riporta direttamente al panorama della sperimentazione artistica che fa uso del digitale. Con la frase “non più opere ma processi, non più originalità ma riproducibilità”, si vuole mettere in evidenza la trasformazione che, attraverso l’uso del digitale, avviene anche nel campo dell’arte, come naturale conseguenza dell’uso di una determinata tecnologia (quella digitale, appunto).
L’idea che ne deriva è di quella di un’arte che in qualche modo supera lo stesso termine “arte”, se lo si considera come qualcosa di chiuso, definito, elitario. Per interpretare determinate oper-azioni artistiche, va tenuto presente che non possono più essere comprese come materiale da archiviare, oggettualità fisse da interpretare dall’alto, prodotto concluso da analizzare come entità distante, merce da inserire in un mercato catalogante.
Chi fa arte con il digitale, e sottolineo il termine “fa”, e lo utilizza ovviamente in un certo modo (per collettivizzare l’idea di arte, per renderla processo, impermanenza e evento collettivo), spesso non si riconosce più nel concetto stesso di arte, che diviene un vuoto da riempire con la propria azione, con il proprio gesto riproducibile e contaminabile.
Ovviamente pensare ad un’arte digitale con il copyright è intrinsecamente una forzatura: collegandosi ad un determinato sito, o alla cosiddetta “galleria virtuale” per visionarne le opere, ci si impossessa automaticamente dell’opera, che viene copiata nel proprio hard disk.
La riproducibilità è quindi una proprietà stessa del mezzo che viene utilizzato, che offre un terreno fertile per portare avanti un’arte che va oltre l’arte e che diviene contesto di scambio, interazione, contaminazione, apertura?per permettere a tutti di partecipare al processo artistico, lasciandovi il proprio gesto, auto-gestendo i media.
Fra le persone che fanno parte della rete dell’artivism rappresentata in AHA con i propri contributi video o in rete, vi sono infatti Tommaso Tozzi , Giacomo Verde , i Giovanotti Mondani Meccanici , Federico Bucalossi , Claudio Parrini , Massimo Contrasto , Mariano Equizzi , la compagnia teatrale Neguvon, che da svariato tempo propongono un’idea di arte come pratica, processo, contaminazione, coinvolgimento diretto del pubblico, territorio di sperimentazione collettiva. PI: AHA è una mostra-evento che chiude un percorso, ne apre un altro o entrambi? Chi, e come, puo’ avvicinarsi a questo percorso, passato, presente e futuro?
TB: Non so se AHA chiude o apre dei percorsi, questo dipenderà anche da come all’esterno la cosa verrà percepita. Per quanto mi riguarda, AHA vuole essere una delle tante TAZ, una delle tante zone temporanee, in cui si manifesta un percorso collettivo, che punta a sottolineare e a mettere in evidenza alcune forme di critica autonoma e indipendente verso la nostra società e differenti espressioni di come la tecnologia si può usare per creare delle “aperture” e di come l’arte può superare i suoi stessi confini.
Personalmente, vedo come scopo principale di AHA quello di portare la sperimentazione creativa all’interno della vita reale, delle dinamiche collettive, dell’impegno sociale e politico, superando i concetti di originalità artistica e immobilità da collezionare? e nello stesso tempo portare tutto questo in un museo per dimostrare che i luoghi di produzione della cultura sono altrove?portare la vita dentro un museo per aprirne non solo le porte ma anche le mura. Aprire un museo alle relazioni collettive e ad un tipo di arte impossibile da mercificare, proprio perché si fa network di entità autonome, che oggi sono qui, domani sono già in mutazione, come del resto muta la nostra stessa esistenza.
Ciò che è esposto in un museo è la conseguenza di tali processi vitali: con questo progetto si vuole portare questi processi dentro un museo, perché è con il fare, l’azione, le pratiche reali che si genera il nuovo.
Il concetto di network nel museo è reso evidente dall’integrazione fra i diversi media, utilizzati secondo modalità collettive e autogestite (opere video, progetti in Rete, trasmissioni radio, selezione di testi sul mediattivismo), il tutto armonizzato in un ambiente “percettivo”, caratterizzato dalla presenza di luci, suoni e sculture cyber.
L’idea di network si manifesta come capacità di utilizzare la tecnologia per portare avanti progettualità integrate, che vadano ad agire direttamente nei meccanismi di costruzione dell’informazione, e di conseguenza, capaci di agire nei circuiti di produzione degli equilibri/squilibri sociali.
Mi auguro che AHA non rimanga un episodio isolato, ma che possa sensibilizzare alla futura realizzazione di eventi simili, che purtroppo in casi molto rari sono promossi dalle istituzioni e dagli enti pubblici e museali, che continuano a riproporre ciclicamente un modo stantio di fare arte e cultura. Si crea, di conseguenza, un totale scollamento fra chi fa arte, comunicazione e cultura e chi la rappresenta in maniera ormai completamente artificiale (paradossalmente proprio coloro che detengono i maggiori mezzi logistici e economici per incentivarla). PI: La mostra raccoglie testimonianze e presenze dei numerosi attivisti e gruppi che rappresentano l’anima dinamica di movimento, da Isole nella Rete ad Indymedia Italia e via via fino a Tommaso Tozzi, Ferry Byte, Arclele e via dicendo. La mostra è un ponte tra mondi distanti o una nuova “forma epifanica”, una testimonianza, per un movimento che si pone tradizionalmente in modo antagonista ed alternativo a quanto è mainstream?
TB: È infatti doveroso (e piacevole:-) sottolineare che AHA non sarebbe mai nata se non ci fosse stato l’apporto e la partecipazione di tante realtà e di tanti collettivi che hanno supportato attivamente il progetto, e di altri che semplicemente lo hanno approvato, cosa che comunque è stata ugualmente importante, visto che l’evento include tante anime, alcune con posizioni diverse fra loro.
I gruppi presenti nel progetto sono tutti attualmente attivi nell’ambito dei circuiti indipendenti e condividono la medesima attitudine all’autogestione della tecnologia e dei mezzi di comunicazione, per proporre una visione critica del reale in cui riconoscersi.
AHA però non vuole assolutamente dare vita ad un’etichetta che possa in qualche modo unire forzatamente tanti individui e collettivi diversi; è nata per essere percepita come una testimonianza di un percorso , per mettere in luce che esistono tante realtà che utilizzano i media in maniera autogestita e soprattutto “critica”, per la maggior parte al di fuori di logiche di mercato, che non hanno bisogno di affiancarsi ad un brand per avere risonanza, anzi lo sostituiscono del tutto con la forza dei contenuti. E con la consapevolezza che ognuno può crearsi la propria informazione, imparando ad usare attivamente i media, costruendo autonomamente il proprio “palinsesto”.
PI: Sono passati ormai molti giorni dall’apertura della mostra e pochi ne mancano alla sua conclusione. È stato colto lo spirito della mostra? AHA si conclude il primo marzo lasciando quale “eredità”? È giusto dire che si “conclude”?
L’idea esposta sopra (AHA come testimonianza di un percorso), non determina necessariamente il fatto che tale percorso sia da percepire come concluso.
Le realtà presenti in AHA sono in continua trasformazione, e ciò che si vede ora nel MLAC (il museo che ospita la mostra), è già in parte passato.
Altro invece vive parallelamente, come per esempio i siti segnalati in uno dei computer nella sala, che vengono aggiornati giorno per giorno dai rispettivi “creatori”: per cui se un sito si presenta un giorno in un certo modo, qualche giorno dopo sarà già diverso, contribuendo a creare l’idea di mostra come evento e come processo coevolutivo. Secondo questa logica, i visitatori sono invitati a inserire fra i “Preferiti” del suddetto computer i siti sull’artivism, hacking o activism che desiderano segnalare. Questi andranno ad aggiungersi agli altri siti dei gruppi, individui e collettivi che partecipano ad AHA, inizialmente inseriti tra i “Preferiti” del computer. In questo modo, al termine della mostra rimarrà un’opera collettiva, costituita dalle preferenze di tutti i visitatori di AHA.
Allo stesso modo, è auspicabile che la creazione del sito del MLAC in versione accessibile (si veda www.luxflux.net ) ad opera di Ferry Byte, Arclele e Claudio Parrini, non sia un episodio isolato che si concluda con la fine della mostra, ma che anche gli altri enti pubblici decidano finalmente di dotarsi di siti realmente usabili e universalmente accessibili.
Più in generale, mi auguro che lo stesso evento AHA non sia un episodio, ma che nel suo piccolo possa dare vita ad altri progetti simili, orientati a diffondere, rendere visibili e incentivare forme attive e critiche di fare informazione e nuove modalità di sperimentazione tecnologica e artistica. Attualmente infatti, esistono parecchie realtà vive e attive a livello mediatico, tecnologico e artistico, ma spesso sono frammentate all’interno di diversi microprogetti di scarsa visibilità, andando a discapito di una crescita progettuale collettiva. Realtà che, anche per scelta, vivono all’interno di determinati circuiti e che poco hanno a che fare con ciò che viene legittimato ufficialmente come “arte” e “cultura”. Invece, in queste sedi, e cioè nei cosiddetti contesti “istituzionali”, nella maggior parte dei casi si portano avanti i soliti giochi di potere, orientati a alimentare interessi privati e non certo a promuovere e diffondere nuove forme di creatività.
Intervista a cura di Paolo De Andreis