Oracle raccoglie e rilancia un allarme che sta provenendo dal mondo del lavoro. Si tratta di un allarme di cui si sente chiaro l’eco in questi mesi che avvicinano alla prevedibile (visibile, già avviata) “seconda ondata”, ma a cui Oracle ha dato una consistenza numerica ed una interpretazione logica grazie alla ricerca “AI@Work 2020“, dalla quale emergono peraltro sfumature non del tutto prevedibili a priori.
Sindrome da Covid: stress e inquietudine
La prima grande evidenza sta nel fatto che “Il 70% delle persone ha sentito più stress e ansia sul lavoro quest’anno rispetto a qualsiasi altro anno precedente. Ciò ha prodotto un impatto negativo sul benessere psicologico del 78% della forza lavoro globale, causando in particolare più stress (38%), mancanza di equilibrio tra lavoro e vita privata (35%), burn-out (25%), depressione da assenza di socializzazione (25%) e solitudine (14%)“. Emerge insomma un disagio evidente che ha più cause: maggior isolamento, maggiori privazioni, maggior inquietudine legata all’incertezza sul futuro, maggior preoccupazione legata all’instabilità del posto di lavoro. Ciò nasce e si riflette sul posto di lavoro, con chiari effetti deleteri in termini di benessere personale e di performance professionali: “Le nuove pressioni subite a causa della situazione globale si sono sovrapposte ai fattori di stress abituali legati al lavoro, tra cui la pressione per raggiungere i risultati (42%), la gestione di attività noiose e/o di routine (41%) e il fatto di dover affrontare carichi di lavoro sentiti come ingestibili (41%)“.
Registrare oggi questi sintomi consentirà di comprendere meglio quel che accadrà quando la stretta sarà più forte, prevedibilmente nei mesi a venire: gran parte degli intervistati in questa ricerca firmata da Oracle e Workplace Intelligence, infatti, ha confessato problemi quali “privazione del sonno (40%), cattiva salute fisica (35%), riduzione della serenità domestica (33%), sofferenza nei rapporti familiari (30%)“. In conseguenza di ciò il 62% confessa un certo interesse per il lavoro da remoto, identificato come una sorta di rifugio sicuro di fronte all’inquietudine del momento: più tempo a disposizione per stare in famiglia, più tempo per il riposo, più tempo per completare le proprie mansioni, quindi un certo recupero di serenità rispetto ai ritmi ed ai rischi di una non-normalità che si preferisce evitare.
Con la nuova situazione legata al lavoro a distanza le demarcazioni tra vita personale e professionale si sono sfumate; in generale il peso del COVID 19 sulla salute mentale è risultato significativo, ed è qualcosa che riguarda lavoratori di ogni settore e paese. La pandemia ha messo anche la salute mentale in primo piano: è il più grande problema della forza lavoro del nostro tempo e lo sarà per il prossimo decennio. I risultati del nostro studio mostrano quanto sia diventato diffuso questo problema e perché ora è il momento per le organizzazioni di iniziare a parlarne ed esplorare nuove soluzioni.
Dan Schawbel, managing partner, Workplace Intelligence
Improvvisamente, insomma, lo smart working diventa qualcosa di utile non soltanto per l’azienda, ma anche per il lavoratore: una realtà spesso osteggiata da ambo le parti, d’un tratto si rivela elemento riconciliante, in grado di restituire un porto sicuro ove rifugiarsi per trovare la serenità necessaria.
Cosa si può fare? L’IA può aiutare
La ricerca è stata condotta su 12347 utenti in tutto il mondo, di cui un migliaio in Italia. La conclusione è molto particolare, perché emerge chiaramente come il 68% degli intervistati preferirebbe confrontarsi su questi problemi con una intelligenza artificiale invece che con il proprio manager. Timore di dover confessare una fragilità, forse. Scarsa empatia con le persone proprio nel momento del nuovo “ne usciremo migliori”, forse. Risultanza e strascico di quell’isolamento sociale che ha ridotto l’empatia rispetto alle altre persone, facendoci sentire più soli e vulnerabili, forse. Ma una cosa è chiara: il problema non può essere ignorato.
https://www.youtube.com/watch?v=Ub6JWRvk6iI
“Con la pandemia globale“, spiega Emily He, vicepresidente senior, Oracle Cloud HCM, “la salute mentale è diventata non solo una questione sociale più ampia, ma una delle principali sfide sul posto di lavoro. Ha un impatto profondo sulle prestazioni individuali, sull’efficacia del team e sulla produttività organizzativa. Ora più che mai,si tratta di un argomento importante in azienda, e i dipendenti chiedono ai datori di lavoro di farsi avanti e fornire soluzioni“. E continua: “Si può fare molto per supportare la salute mentale della forza lavoro – e ci sono tanti modi in cui la tecnologia come l’AI può aiutare. Ma prima di tutto le organizzazioni devono mettere il benessere mentale delle persone tra le proprie priorità. Se riusciamo a far partire una riflessione aperta e costruttiva sull’argomento, sia a livello delle risorse umane che a livello dirigenziale, possiamo attivare un cambiamento. Ed è giunto il momento di farlo“.
Il 75% degli intervistati spiega che l’IA ha già dato un contributo positivo come strumento di lavoro, soprattutto grazie al maggior numero di informazioni messe a disposizione ed al tasso di automazione che ha consentito presentandosi come alleata. Gli intervistati vedono nell’IA un alleato, più che una minaccia: questo consente l’instaurarsi di un’insospettabile empatia, un’alleanza costruita sul benessere di fronte a sfide professionali che rischiano altrimenti di portare il lavoratore ad una situazione di stress eccessivo.
Oltre la metà degli intervistati afferma che la tecnologia AI aumenta la produttività dei dipendenti (63%), migliora la soddisfazione sul lavoro (54%) e migliora il benessere generale (52%).
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Per l’azienda, insomma, l’IA è un investimento che va ragionato anche in quest’ottica. Soprattutto in quest’ottica, forse: non è un succedaneo delle risorse umane, ma è un elemento in grado di migliorarne l’efficienza, aumentarne le potenzialità e moltiplicarne le risultanze ai fini della mission aziendale.