Amazon si era fatta carico di una battaglia per difendere i dati raccolti dai dispositivi della IoT, per non impensierire i potenziali utenti, per non consolidare il sospetto che gli assistenti domestici siano cimici costantemente in ascolto. Aveva rifiutato di aprire i propri archivi cloud alle forze dell’ordine statunitensi, che richiedevano le registrazioni catturate da Amazon Echo per risolvere un caso di omicidio. La battaglia dell’azienda si conclude ora con l’autorizzazione a procedere del proprietario del dispositivo, che ritiene di non aver nulla da nascondere né nulla di cui temere.
Ad avallare le dinamiche che Amazon si era proposta di combattere è stato il principale sospettato, tale James Andrew Bates: era sua l’abitazione di Bentonville, in Arkansas, in cui era stato trovato un conoscente privo di vita, era suo l’assistente domestico Amazon Echo, rivenuto sulla scena del presunto crimine. Secondo le forze dell’ordine il dispositivo avrebbe potuto custodire degli elementi utili per risolvere il caso , con il proprio sistema di microfoni e con le registrazioni, attivate dalla declamazione della parola chiave e stoccate sull’infrastruttura cloud di Amazon: per questo motivo l’azienda era stata chiamata a testimoniare, con la consegna dei dati in proprio possesso.
Amazon aveva però avviato un procedimento per opporsi alle richieste delle forze dell’ordine: l’azienda aveva sostenuto che Echo, con l’ausilio del software di Alexa, è un dispositivo utile a ricercare e ottenere informazioni, diritti protetti dal Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, protetti come dovrebbero essere le tracce lasciate da questa attività, tanto le registrazioni delle richieste rivolte dall’utente a Echo quanto le risposte fornite dal dispositivo. Per tutelare l’utente nel suo esercizio di questi diritti, in modo da scongiurare la sensazione di essere sottoposto ad un controllo pervasivo , che a sua volta influisce sulla libertà con cui sceglierà di esprimersi e di informarsi, soprattutto attraverso strumenti che possano tenere traccia di tutti i suoi comportamenti, Amazon aveva sostenuto che le richieste di dati da parte delle forze dell’ordine dovessero essere giustificate in maniera più solida : l’azienda non avrebbe consegnato le registrazioni a meno che non si fosse dimostrata una connessione fra questi i dati e il caso da risolvere.
A vanificare l’impegno di Amazon nel difendere la riservatezza dei propri utenti, e – nemmeno troppo velatamente – il proprio business della IoT, è stata la decisione dello stesso utente coinvolto nel procedimento: “Poiché il signor Bates è innocente rispetto a tutte le accuse a suo carico – hanno riferito i suoi legali – ha autorizzato il rilascio agli inquirenti di ogni registrazione del suo Amazon Echo”.
Il legale di Bates ha fornito anticipazioni riguardo alle registrazioni catturate dal dispositivo e consegnate alle forze dell’ordine: si tratterebbe di chiacchiere private e irrilevanti fra conoscenti. Chiacchiere probabilmente inutili a chiarire la posizione del sospettato, chiacchiere che con ogni probabilità ogni proprietario di un assistente domestico vorrebbe rimanessero confinate all’intimità delle mura domestiche.