Nel mese di dicembre, Google ha annunciato di aver siglato un accordo con Saudi Aramco al fine di allestire una nuova regione cloud in Arabia Saudita, così da poter meglio erogare i propri servizi nel territorio. Un’iniziativa che ha sollevato qualche perplessità tra coloro che si battono per la tutela dei diritti umani.
Google Cloud e Arabia Saudita: 39 firme per lo stop al progetto
Oggi Amnesty International si fa portavoce di una schiera composta da 39 realtà, chiedendo a bigG di rivedere la propria scelta, in considerazione dell’oppressione esercitata dal regime locale sulla popolazione e, in particolare, sugli attivisti. Riportiamo di seguito in forma tradotta le parole di Rasha Abdul Rahim, direttore di Amnesty Tech.
L’Arabia Saudita ha pessimi trascorsi in fatto di diritti umani, riguardanti anche la sorveglianza digitale dei dissidenti, non è perciò un paese sicuro per ospitare Google Cloud Platform. In un territorio dove i dissidenti sono arrestati e imprigionati per le loro idee o torturati per il loro lavoro, il piano di Google può conferire alle autorità saudite poteri ancora più ampi per infiltrarsi nelle reti e ottenere l’accesso ai dati di attivisti pacifici o di chiunque esprima un’opposizione al Regno.
Va sottolineato che la società californiana pubblica regolarmente il proprio Rapporto sulla Trasparenza affrontando, tra le altre cose, il tema delle richieste ricevute dai governi di tutto il mondo per l’accesso ai dati e le modalità attuate per gestirle. La ONG chiede a Google di fare completa chiarezza in merito alle misure di prevenzione adottate al fine di evitare abusi che possano ripercuotersi sulla libertà dei cittadini sauditi.
Google deve immediatamente interrompere il progetto finalizzato a stabilire una regione cloud in Arabia Saudita, finché non sarà in grado di dimostrare in che modo potrà prevenire potenziali abusi della piattaforma.
L’elenco completo di coloro che hanno sottoscritto la lettera inviata al gruppo di Mountain View è consultabile in un documento (PDF) condivido da Amnesty International: ci sono anche Electronic Frontier Foundation, Greenpeace International, Human Rights Watch e Oxford Internet Institute.