Google ha la capacità di “sbloccare” un gadget Android, o quantomeno la stragrande maggioranza dei terminali basati sul sistema operativo mobile più popolare, agendo da remoto e in maniera indipendente dalle azioni dell’utente. E Google deve farlo, quando c’è di mezzo l’interesse della giustizia a stelle e strisce.
Il non certo sorprendente “super-potere” di Google emerge da un rapporto sulla crittografia degli smartphone stilato dal procuratore distrettuale di Manhattan , un documento che vorrebbe contribuire al dibattito sull’uso degli algoritmi crittografici con tanto di verità fattuali tese a confutare gli argomenti dei difensori della privacy su “miti” come le backdoor governative.
Il compito di Google e Apple non è quello di proteggere la sicurezza pubblica, si legge nel rapporto, perché della faccenda si occupano già le forze dell’ordine; riguardo l’accesso alle potenziali prove archiviate su smartphone, poi, non c’è solo la crittografia da prendere in considerazione.
L’ufficio del procuratore afferma quindi che Google “può resettare i codici di accesso quando richiesto da un mandato di perquisizione e un ordine che gli impone di aiutare le forze dell’ordine a estrarre i dati dai dispositivi”, e tale reset può avvenire da remoto così da permettere agli investigatori di visualizzare le informazioni presenti sul gadget.
Quando invece sul dispositivo è stata abilitata la crittografia completa dello storage di sistema (FDE), spiega ancora il rapporto, Google è impossibilitata a resettare e così le forze dell’ordine non sono in grado di accedere agli eventuali dati “interessanti” presenti sul teminale.
La cifratura FDE è stata introdotta su Android 5.0 ed è abilitata di default sui dispositivi Android 6.0 dotati dei requisiti minimi necessari , e sommando assieme i due OS si arriva a quasi il 26 per cento di terminali Android “inviolabili” per le forze dell’ordine, ma anche per Google.
Lo stesso vale poi per iOS, che mette a disposizione funzionalità FDE dalla versione 8 in poi.
Alfonso Maruccia