La Commissione Europea, nei giorni scorsi, ha formulato le proprie accuse formali nei confronti di Google, sotto osservazione fin dal 2010 e finora incapace di garantire all’Europa una soluzione che sapesse placare le rivendicazioni della concorrenza: il confronto per verificare l’abuso di posizione dominante, durato un lustro, si è concretizzato in un solo fronte d’accusa, quello relativo al trattamento preferenziale riservato al servizio di comparazione commerciale Google Shopping fra i risultati di ricerca. Ma non è la sola iniziativa intrapresa dall’antitrust europeo: nei confronti di Google è stata avviata una nuova indagine, di cui si vocifera da tempo e relativa alle politiche commerciali con cui Google si vincola ai produttori di dispositivi mobile che montano Android. Alla luce dei celebri casi antitrust che hanno coinvolto Microsoft, alla luce delle recenti e radicali proposte formulate in seno al Parlamento Europeo e in Francia, Punto Informatico ha tracciato un’analisi del quadro insieme all’ avvocato Enzo Marasà , counsel dello studio Orsingher Ortu e responsabile della practice Antitrust e Regolamentare.
Punto Informatico: Le indagini che hanno coinvolto Google richiamano inevitabilmente alla mente il confronto tra Microsoft e la Commissione Europea, che si è sviluppato su diversi fronti e in diverse indagini. Quali sono gli elementi di affinità con il caso Android?
Enzo Marasà: Nel caso Microsoft I (deciso nel 2004 dalla Commissione UE e confermato dal Tribunale UE nel 2007) la Commissione ha contestato a Microsoft un abuso consistente nell’utilizzare il sistema operativo Windows come un canale di distribuzione finalizzato ad assicurarsi in modo anticompetitivo (cioè indipendentemente dal “merito” del prodotto) un vantaggio concorrenziale significativo nel mercato collegato dei dispositivi per la riproduzione di contenuti audiovisivi. Più specificamente, ciò avveniva attraverso una pratica “legante” (anche detta tying practice ) consistente nella pre-installazione sui PC di Windows Media Player, che tra l’altro veniva lanciato automaticamente alla prima attivazione del PC. In questo modo, secondo la Commissione, Microsoft era in grado di estendere la posizione largamente dominante detenuta sul mercato dei sistemi operativi per PC sul mercato collegato dei programmi per la riproduzione di contenuti audiovisivi, poiché creava un ostacolo significativo all’entrata dei concorrenti su tale mercato. Ad ogni modo, il caso Microsoft II del 2009, che contestava a Microsoft il vantaggio attribuito al suo browser per la navigazione Internet Explorer, ha riguardato pratiche non dissimili nella sostanza.
L’indagine che riguarda Android somiglia per alcuni versi ai suddetti casi perché, dalle informazioni ad oggi note, si comprende che ha ad oggetto l’utilizzo che Google fa del suo sistema operativo per smartphone e tablet Android (anch’esso dominante nel relativo mercato, seppure in misura meno evidente di Windows all’epoca) per favorire le sue applicazioni proprietarie (come ad esempio Google Maps e altre) tramite la loro pre-installazione sul dispositivo mobile.
PI: Quali sono invece le differenze?
E.M.: Rispetto ai casi Microsoft c’è da considerare che, da un lato, Android è un software gratuito (open source) e, dall’altro, che la pre-installazione delle applicazioni di Google sui dispositivi Android è frutto di accordi con i produttori di telefonici e non di pratiche unilaterali. L’indagine riguardante Android in effetti, così come spiegata dalla Commissione, lascia aperta la possibilità che venga contestata la violazione del divieto di intese anticoncorrenziali tra imprese (articolo 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea ), la quale può essere alternativa o cumulativa all’ipotesi di abuso di posizione dominante (articolo 102 del Trattato). Tale differenza tuttavia, in questo caso, ha più a che fare con aspetti formali e con le strategie istruttorie e procedurali della Commissione che con la sostanza del comportamento contestato.
PI: Come potrebbe influire sull’orientamento della Commissione il fatto che Android sia un software open e gratuito?
E.M.: Su questo punto si concentrano alcune delle maggiori complicazioni non solo di questa indagine, ma di tutte quelle che riguardano l’utilizzo di piattaforme gratuite (come Facebook a WhatsApp). Sorgono infatti questioni interpretative relative all’individuazione puntuale del mercato rilevante, che forma il presupposto essenziale e pregiudiziale per una solida decisione di infrazione antitrust. In linea di principio, solo i mercati a cui è attribuibile un chiaro valore economico possono essere oggetto di una valutazione antitrust. Ciò detto, il fatto che Android sia, per una precisa scelta di Google, un software gratuito non significa che Google non possa restringerne le possibilità di utilizzo da parte dei produttori di smartphone e tablet tramite, per ipotesi, accordi di licenza che impongano condizioni specifiche, come ad esempio quali applicazioni pre-installare sui dispositivi. È evidente che l’appetibilità dei prodotti dei dispositivi mobili dipende anche, e forse soprattutto, dalle caratteristiche specifiche del loro sistema operativo e quindi è abbastanza evidente che simili restrizioni possono avere un impatto su mercati veri e propri, non da ultimo quello delle applicazioni e della pubblicità che corre su di esse. Inoltre, si sta ormai delineando un nuovo mercato che riguarda i Big Data, ovvero lo scambio tra imprese dei dati sulle preferenze commerciali espresse dagli utenti tramite, ad esempio, i like o i siti e le applicazioni più frequentate (detti anche dati di profiling commerciale). Questi dati vengono utilizzati per comprendere gli orientamenti della domanda globale di prodotti e servizi e sono sempre più percepiti come essenziali per indirizzare le scelte strategiche e gli investimenti delle aziende.
PI: È indubbio – come rimarca anche Google – che l’avvento di Android con le sue dinamiche open abbia contribuito ad alimentare la competizione sul mercato, soprattutto sul fronte dell’offerta da parte dei produttori. D’altro canto le basse barriere all’ingresso del mercato dei dispositivi mobile e la vasta offerta da parte dei produttori non può che avvantaggiare Google, estendendo la base di utenza per il proprio sistema operativo e per i propri servizi: agli occhi della Commissione ciò potrebbe rappresentare un’ “aggravante” o un’ “attenuante”?
E.M.: Direi né l’una né l’altra. Sulla base di un’applicazione rigorosa della giurisprudenza in materia di abusi, il fatto che un’impresa dominante scelga volontariamente di offrire un prodotto a prezzo sotto-costo o gratuito non la esonera da responsabilità per abuso se l’effetto è quello di eliminare o rendere particolarmente difficile la concorrenza in un dato mercato (ad esempio perché scoraggia gli investimenti dei concorrenti e quindi l’innovazione nel mercato). Nel caso di Android, Google ha ottenuto di diffondere la concorrenza nella produzione di dispositivi mobili tecnologicamente avanzanti e a costi accessibili, ma potrebbe avere acquisito una posizione di forte dominanza nel mercato dei Big Data (nella misura in cui un tale mercato possa essere individuato in termini chiari, cosa per ora non avvenuta) o dei servizi pubblicitari resi alle aziende tramite le sue applicazioni più utilizzate.
PI: Quali sono dunque gli elementi di novità con cui l’antitrust europeo si deve confrontare nel valutare la posizione di Google?
E.M.: La natura e le caratteristiche dei mercati dei servizi digitali non sono ancora del tutto comprese e inoltre sono in continua evoluzione. Tra l’altro la casistica e la giurisprudenza relativa agli abusi di posizione dominante si caratterizza per l’ampia varietà di situazioni fattuali tra loro molto differenti e per l’incertezza degli standard applicati dalla Commissione e dai giudici nel determinare le condizioni che determinano la violazione, anche perché le decisioni sono sempre molto ritagliate sulle circostanze specifiche dei casi analizzati. Detto questo, l’indagine riguardante Google (in particolare quella sui servizi di ricerca, ma un discorso simile può farsi anche per il caso Android) riguarda un tema che nella giurisprudenza non trova risposte univoche, ovvero fino a che punto un’impresa dominante possa favorire i propri prodotti e servizi rispetto a quelli dei concorrenti e se l’incidenza dannosa dei comportamenti debba valutarsi in relazione alla capacità competitiva dei singoli concorrenti vittime di quei comportamenti o piuttosto in relazione agli effetti sulla concorrenzialità del mercato nel suo complesso. A ciò si aggiunga che il servizio di ricerca di Google è gratuito per i consumatori ed essi possono accedere abbastanza facilmente ai servizi dei concorrenti. Ciò fa sorgere questioni nuove in merito alla individuazione del mercato di riferimento. Tra l’altro, in mercati in cui l’incentivo ad innovare è particolarmente importante e l’evoluzione competitiva particolarmente dinamica come quello dei servizi digitali, vietare ad un’impresa di sfruttare il vantaggio derivante dai propri investimenti può essere controproducente per tutti, se il divieto non è sostenuto da elementi di fatto e di diritto chiari e convincenti. PI: Sul fronte invece degli addebiti formulati dalla Commissione nell’ambito del search e dei servizi di comparazione commerciale, è possibile immaginare come Google avrebbe potuto soddisfare la Commissione e la concorrenza per scongiurare lo statement of objections?
E.M.: Certamente Google avrebbe potuto chiudere l’indagine accettando di proporre impegni analoghi a quelli proposti dai concorrenti che hanno portato il caso in Commissione, come ad esempio fornendo loro le informazioni essenziali sul proprio algoritmo e impegnandosi a distinguere in modo chiaro i risultati di ricerca dipendenti dalla rilevanza e attinenza per la ricerca effettuata dall’utente da quelli dipendenti invece dalla volontà di Google di favorire i propri servizi o quelli dei propri partner commerciali. Si discute però forse di “lana caprina” poiché, da un lato, sarebbe stato tecnicamente difficile (se non impossibile) verificare il rispetto genuino di simili impegni e dall’altro, è evidente che Google non cederà mai il proprio asset più strategico ed essenziale (cioè l’algoritmo) senza esserne obbligata con la forza. Sarebbe un po’ come chiedere alla Coca-Cola di divulgare la sua ricetta.
PI: Fantasticando invece sui remedies, quanto è probabile che la Commissione sposi un approccio che preveda la separazione strutturale dei servizi commerciali e di ricerca proposto dal Parlamento Europeo?
E.M.: Il cosiddetto “unbundling strutturale” (ovvero la netta separazione anche societaria tra “infrastruttura di rete”, cioè il motore di ricerca nel caso di Google, e “servizi commerciali”, cioè nello specifico quelli di vendita di servizi pubblicitari e commerciali alle aziende) è un rimedio estremo a situazioni di mercato inestricabili che in casi precedenti (come nell’energia e nelle comunicazioni) è stato adottato con riforme legislative europee specifiche progressive piuttosto che con rimedi imposti d’imperio da decisioni della Commissione o dai giudici. L’impatto di un simile rimedio sarebbe devastante per l’incentivo delle imprese a investire in attività economiche e in ricerca e potrebbe avere l’effetto di affossare l’iniziativa imprenditoriale e l’innovazione se adottato senza che sussistano condizioni eccezionali. Non è ancora chiaro se la struttura dei mercati inerenti i servizi di ricerca su internet siano caratterizzati dalla presenza di essential facilities in senso tecnico e anche se fosse, la Commissione non sembra intenzionata per il momento a fare passi più lunghi della gamba. Per questo credo che la risoluzione del Parlamento Europeo abbia un carattere più che altro provocatorio e non sia realistico al momento pensare che la Commissione vi dia seguito.
PI: Sempre a proposito di remedies, il Senato francese nei giorni scorsi ha approvato un emendamento alla proposta di legge Macron che in sostanza fissa delle regole molto stringenti per i motori di ricerca. La Francia vorrebbe in primo luogo che i motori di ricerca dessero spazio alla concorrenza sulla propria home page, con una sorta di ballot screen. La proposta è sensata? L’Europa potrebbe trarre qualche spunto?
E.M.: Alcuni dei rimedi proposti sembrano sensati, seppure siano sicuramente “forti” e non suscitino consenso per via del metodo con cui sono avanzati, cioè una proposta di legge invece che un’approfondita indagine antitrust fatta da istituzioni “tecniche” e con le relative garanzie procedurali di revisione di merito e legale della decisione.
L’obbligo di fornire spazio ai link dei concorrenti e alcune previsioni di principio tese a garantire una maggiore neutralità e trasparenza dei risultati sembrano ricalcare i rimedi imposti dalla Commissione nei casi Microsoft (il ballot screen, ad esempio, è la soluzione adottata dalla Commissione nel caso Microsoft II del 2009) e non è escluso che qualcosa di simile possa scaturire dall’indagine europea in corso.
PI: La proposta francese prevede altresì che i motori di ricerca mettano a disposizione informazioni generali sui loro principi di funzionamento ( “Met à disposition des utilisateurs des informations portant sur les principes généraux de classement ou de référencement proposés” ): può significare, come segnalato da alcuni osservatori in analogia ad una proposta già ventilata in Germania, che i motori di ricerca debbano garantire trasparenza sui propri algoritmi?
E.M.: La divulgazione dell’algoritmo sarebbe devastante per il modello di business di Google e, a mio avviso, un messaggio scoraggiante per tutte le imprese che vogliono investire in tecnologia proprietaria. Più sensata sembra invece la proposta di obbligare i motori di ricerca (per lo meno quello dominante) di pubblicare i criteri di massima a cui si ispira il ranking dei risultati, accompagnato ovviamente all’impegno di rispettarli. Un rimedio (e tanto più una legge) che imponga a Google di divulgare il suo algoritmo potrebbe significare la morte del modello di business su cui si basa Google: per questo una proposta che agisca in tal senso mi sembra azzardata e provocatoria e dubito che venga approvata così come è. In effetti pare che abbia già incontrato una netta opposizione da parte di elementi di spicco del governo e del Parlamento francese. Staremo a vedere.
PI: L’Europa non sembra intenzionata ad arrivare ad imporre trasparenza sul funzionamento degli algoritmi o ad influire su di essi. Per quale motivo?
E.M.: La questione è sostanzialmente analoga a quella dell’unbundling, il quale in pratica implicherebbe l’accesso libero e indiscriminato (sia dal lato tecnico che da quello economico) dei concorrenti all’infrastruttura di ricerca di Google. La Commissione vuole mostrarsi sensibile all’esigenza di mantenere gli incentivi delle aziende ad investire in ricerca e in innovazione e quindi ha voluto dare un segnale di policy incoraggiante in questo senso.
PI: Quali prospettive possiamo dunque immaginare, per Google e per il riequilibrio del mercato?
E.M.: Sia la proposta di legge francese, in particolare nel punto in cui potrebbe imporre l’accesso all’algoritmo, sia la Risoluzione del Parlamento Europeo che richiede l’unbundling della piattaforma di ricerca dai servizi commerciali di Google sembrano implicare, dal punto di vista del diritto antitrust, che il motore di ricerca di Google sia una essential facility . Non mi sembra che la Commissione intenda spingersi a questo estremo. In linea del tutto teorica non sarebbe impossibile sostenere questa tesi, ma dovrebbe essere supportata da prove convincenti in merito all’impossibilità pratica di replicare la piattaforma di ricerca di Google anche per un concorrente altrettanto efficiente. Inoltre, bisognerebbe dimostrare che, senza un accesso libero e non discriminato agli elementi tecnici e segreti dell’infrastruttura, la concorrenza effettiva in mercati collegati sarebbe completamente eliminata. Queste sono le due condizioni chiave poste in modo condiviso dalla giurisprudenza sulle essential facilities (vi sono altre condizioni variabili a seconda dei casi). Ad ogni modo, alla luce della casistica europea in tema di abusi, sostenere che il motore di ricerca di Google sia una essential facility non è strettamente necessario per giungere ad una decisione di abuso di posizione dominante e per imporre rimedi consistenti nell’applicare condizioni non discriminatorie o eccessivamente gravose ai concorrenti. Per raggiungere questo scopo può essere sufficiente dimostrare che Google favorisce i propri servizi o quelli di determinati partner commerciali rispetto ad altri concorrenti, con l’effetto di precludere una concorrenza effettiva e scoraggiare l’innovazione.
a cura di Gaia Bottà