Le accuse sono state formulate a partire da alcuni scambi di email, nel quali erano contenute immagini derivate dall’abuso di minori: le indagini delle forze dell’ordine si sono dispiegate sul materiale contenuto sul computer dell’imputato, le prove sono state raccolte nonostante l’accusato abbia tentato di rimuoverle. A segnalare la condotta dell’uomo è stato per primo il suo fornitore di servizi email, AOL: si tratta di una segnalazione perfettamente lecita, spiega ora la giustizia statunitense.
Frank DiTomasso, il protagonista della vicenda, ha tentato di denunciare gli Stati Uniti: le modalità con cui sono state raccolte le prove nei suoi confronti, a suo parere, costituirebbero una violazione del Quarto Emendamento, che protegge il cittadino dalle perquisizioni e confische irragionevoli. A innescare la denuncia di DiTomasso, il comportamento di AOL e del gestore del servizio di chat di cui si serviva, Omegle: il monitoraggio operato da questi due soggetti, e di conseguenza la segnalazione alle forze dell’ordine, secondo l’uomo, sarebbero illegali.
Il giudice del tribunale di New York ha analizzato il comportamento dei fornitori di servizi. AOL, ad esempio, gestisce i flussi di email sottoponendoli al controllo automatico di due sistemi di hashing: si tratta di Image Detection and Filtering Process (IDFP) e di photoDNA, il sistema sviluppato con la collaborazione di Microsoft che permette di classificare, identificare e confrontare le immagini pedopornografiche che circolano in Rete con quelle contenute negli archivi delle autorità. Dal 2012 il servizio è stato messo a disposizione del National Center for Missing and Exploited Children (NCMEC), istituzione che fa da punto di riferimento negli States per la lotta all’abuso sui minori: il software, che rileva il caricamento online di immagini che coincidono con quelle contenute classificate dalle autorità, permette di allertare il NCMEC e di avviare le indagini, nel tentativo di arginare i crimini perpetrati nei confronti dei minori. Nel mese di agosto del 2012 due email nella casella di posta elettronica di DiTomasso avevano innescato i filtri di AOL, e le relative segnalazioni alle istituzioni.
Si tratta di operazioni di routine, come dimostrano anche i recenti episodi che hanno visto coinvolti Google , con Gmail , e Microsoft : questo tipo di monitoraggio, secondo le aziende che lo mettono in atto, non costituirebbe una violazione della privacy per la natura automatica del controllo e dovrebbe rassicurare il cittadino della Rete.
Il giudice incaricato di valutare la denuncia di DiTomasso non si è limitato a valutare le buone intenzioni dei fornitori di servizi: il Quarto Emendamento non può essere calpestato dal semplice fatto che la tecnologia si sia evoluta in modo tale da essere piegata al tecnocontrollo. Se l’uso delle comunicazioni elettroniche implicasse la rinuncia al diritto alla privacy, spiega il giudice, o il cittadino rischierebbe di rinunciare anche alle interazioni sociali mediate dalla tecnologia o le tutele del Quarto Emendamento sarebbero automaticamente deposte.
A far ritenere vana la denuncia di DiTomasso è però la chiarezza con cui i fornitori di servizi illustrano all’utente le pratiche che mettono in atto: le condizioni d’uso di AOL vietano esplicitamente di commettere atti illeciti attraverso i propri servizi, riservano all’azienda il diritto di monitorare le attività dei propri utenti e di collaborare con la giustizia al fine di contrastare gli abusi che siano stati commessi con la mediazione dei propri servizi. “Acconsentendo alle policy di AOL – ha spiegato il giudice – si acconsente al monitoraggio da parte di AOL sia in qualità di ISP, sia in qualità di soggetto che opera a supporto delle forze dell’ordine”.
Gaia Bottà