Miliardi di dollari di fatturato e poche, pochissime tasse pagate: la testata Australian Financial Review ritiene di aver svelato il meccanismo adottato da Apple per aggirare l’imposizione fiscale in Australia e altrove, riducendo al minimo l’esborso sui profitti. Ogni 1.000 dollari guadagnati, secondo le stime AFR, appena 50 centesimi sono pagati in tasse australiane : tutto grazie a una complessa triangolazione tra filiali locali e produttori cinesi, con una singola azienda-scatola vuota in Irlanda a muovere i fili.
La tesi di AFR è la seguente: l’azienda di diritto irlandese Apple Sales International ordina i device ai produttori cinesi, che si tratti di PC, tablet o smartphone, e una volta pronti li spedisce ai negozianti locali. Questi ultimi sono trattati come semplici venditori, incaricati unicamente del marketing e di piazzare nelle mani dei consumatori i prodotti: sottratte queste spese, tutto sommato minori, dall’incasso, il resto viene girato direttamente ad ASI. Quest’ultima è di fatto una scatola vuota, e incassa il danaro non tanto per l’hardware venduto quanto per i diritti di proprietà intellettuale da essa vantati sui device : il compito di ASI è di finanziare la ricerca e sviluppo di Cupertino e tradurlo in prodotti, e in tal modo i proventi della vendita vanno a coprire i costi sostenuti. Infine , il fisco irlandese consente di “aggirare” le tasse quando l’azienda risulti residente nel paese ma diretta da altrove: in questo modo l’imponibile si abbatte ulteriormente, traducendosi in un versamento minimo di denaro nelle casse dell’erario.
Stando ad AFR, la tecnica utilizzata sarebbe pressoché identica su tutti i mercati (fanno eccezione USA e Cina): ASI non può essere tassata in modo ingente perché il diritto irlandese lo consente, e per il fisco d’Oltreoceano o degli Antipodi è irraggiungibile poiché al di fuori della loro giurisdizione. Il Governo di Canberra tuttavia ha già fatto sapere di voler porre maggiore attenzione al problema delle triangolazioni fiscali: così come altre regioni, Europa in testa, l’Australia pare intenzionata a vederci chiaro e a mettere mano alla propria legislazione se necessario per trattenere cifre maggiori a fronte delle operazioni locali di Apple, o di qualsiasi altra azienda con pratiche simili.
Una parte dei dati di AFR è stata ottenuta ipotizzando il volume d’affari di Apple tra il 2010 e il 2013, dunque è possibile che le stime risultino errate per eccesso o per difetto: ciò nonostante, la testata australiana presenta il caso come rappresentativo di una problematica globale. In Italia non si è ancora sopita la polemica sulla cosiddetta Web Tax , un provvedimento che punta a colpire un meccanismo analogo relativo alla vendita nel nostro paese dell’advertising e dei servizi online da parte di aziende straniere. Apple al momento non ha rilasciato proprie dichiarazioni sulla notizia specifica, mentre in passato ha sempre ribadito di osservare scrupolosamente tutte le leggi in materia di fisco di tutti i paesi in cui opera.
Luca Annunziata