Per le major discografiche l’online, da minaccia che era, è diventata negli ultimi anni un’ opportunità irrinunciabile : si può forse evitare di stampare CD e cofanetti, ma la presenza sulle piattaforme musicali è ormai imprescindibile. E non è un caso che nel tempo la spartizione dei proventi derivanti dalla vendita o ascolto di musica in streaming sia diventato oggetto di contesa. Come sempre accade, chi detiene più potere contrattuale può pretendere qualcosa in più. Ed è quanto starebbe accadendo tra Apple e le major in merito al servizio Apple Music e iTunes.
Secondo Bloomberg , Cupertino starebbe cercando di abbassare i proventi delle case discografiche per poter marginare di più in vista del rinnovo contrattuale ai primi di luglio. La previsione è presumibilmente di appaiare le tariffe a quelle praticate da Spotify, uno dei principali player del mercato dello streaming audio con 140 milioni di utenti attivi (di cui 50 milioni paganti), partecipe nel risollevamento del mercato della musica (le percentuali nell’ultimo anno raccontano una crescita del 5,9 per cento sull’anno precedente).
Scendendo nel dettaglio della spartizione dei proventi, Apple Music riconosce alle major il 58 per cento di quanto raccolto; Spotify il 55 per cento (dopo una recente rinegoziazione, prima era del 52 per cento). Con un numero in costante crescita di sottoscrittori ( 27 milioni ) e di 1 miliardo di dollari di guadagni sull’anno precedente derivante dal congiunto dei servizi Apple Music, iCloud, App Store e iTunes Store (secondo il report dei guadagni del secondo trimestre 2017), Apple potrebbe anche rinunciare a fare la voce grossa con le case discografiche puntando su partnership di lunga durata. Magari evitando le tanto odiate (dalle major) esclusive con gli artisti, che obbligano ad accordi contrattuali pressanti.
Per le major si tratta di trovare un nuovo equilibrio in un panorama che tendenzialmente premia le piattaforme. Dopotutto l’ aumento di vendite dell’11 per cento (7,7 miliardi di dollari) negli USA secondo la Recording Industry Association of America deve essere in qualche modo ripagato. Si tratta pur sempre del balzo più grande mai registrato dal 1998, quando venivano venduti CD per 6 volte tanto.
RIAA da tempo contesta il modello di pagamento di molte piattaforme, prima tra tutte Youtube: “La sfortunata realtà è che abbiamo conseguito questo modesto successo nonostante le nostre attuali licenze di musica e leggi sul copyright, non grazie a loro. Non è questo il modo. Ad esempio, non ha senso che ci vogliano mille streaming di una canzone per i creatori per guadagnare 1 dollaro su YouTube, mentre i servizi come Apple e Spotify pagano gli artisti 7 dollari o più per questi flussi”. E pensare che in tutto questo Youtube si sente legittimata a vantarsi di aver fatto evolvere il mercato musicale. Sicuramente lo ha fatto escogitando un modo di fruirne, ma la vera rivoluzione è ancora in corso. A quanto pare nuovi player entreranno presto nel settore, come Testa che da quanto riporta Recode starebbe stringendo accordi con le major per attivare un servizio musicale in stile Pandora da implementare nelle sue automobili.
Mirko Zago