Un gruppo di attivisti dell’Arabia Saudita ha girato una serie di quattro mini-reportage, dal titolo “We are Being Cheated”, che sono stati postati su YouTube. L’ultimo documentario , della durata di 10 minuti, racconta le estreme condizioni di povertà esistenti ad al-Jaradeya, una periferia della capitale Riyad. Documentari che gli sono costati il carcere.
L’intento dichiarato fin dai primi secondi del video è di mostrare le profonde disparità nelle condizioni di vita in un Paese complesso come l’Arabia Saudita, che detiene il 20 per cento delle riserve mondiali di petrolio , dove enormi patrimoni convivono con storie di povertà estrema come quelle documentate da questo video: famiglie di 13 persone che vivono in un locale (perché chiamarlo “appartamento” sarebbe fuorviante) piccolissimo cercando di sopravvivere con 900 euro al mese, nuclei composti da 20 familiari stipati in una casa di 5 metri di profondità e 20 metri di altezza, e così via. Storie, immagini e commenti che, spiegano gli autori , sono in realtà “familiari alla maggioranza della società saudita”.
Domenica 16 ottobre, pochi giorni dopo la pubblicazione del video originale (senza i sottotitoli in inglese) i tre autori del video sono stati portati in prigione per essere interrogati al riguardo. Da aprile in Arabia Saudita è in vigore una legge sui media che permette al governo di chiudere o multare pubblicazioni che nuocciono alla stabilità del regno o che si configurino come insulti all’Islam. Questa legge, riporta l’agenzia di stampa saudita, proibisce ai media la trasmissione di qualunque contenuto che violi la legge islamica o inciti alla divisione minacciando la sicurezza interna. “Il governo stesso è a conoscenza della situazione di povertà che stiamo affrontando – rispondono gli attivisti – È difficile comprendere come un video sulla povertà in Arabia Saudita possa costituire una minaccia nazionale alla sicurezza del Paese e dei suoi cittadini”.
Nel frattempo i giorni passano e dell’uscita dei tre ragazzi dalla prigione non c’è ancora notizia . Sulla Rete si susseguono commenti e richieste di scarcerazione: su Twitter i messaggi si raccolgono sotto l’hashtag #Mal3ob3lena (il nome in arabo della serie di documentari), e ne parlano anche una famosa blogger saudita, SaudiWoman e Ahmed Al Omran , ex alunno della Columbia School of Journalism e ora giornalista alla National Public Radio di Washington. Quest’ultimo ne ha scritto anche sul suo blog, Saudi Jeans , dove racconta qualche informazione in più grazie ad alcune fonti sul posto: un collega di un sito di news saudita ha provato ad avvicinarsi alla prigione ma le guardie gli hanno permesso solamente di lasciare del cibo per i ragazzi incarcerati, senza poterli vedere .
In un update del 20 ottobre, il blogger racconta di aver parlato con una persona che ha familiarità con le questioni legali saudite, la quale ha descritto come “strana” questa detenzione, aggiungendo che probabilmente la ragione per il ritardo della loro scarcerazione è la volontà, da parte del governo, di mandare un messaggio ai blogger e agli attivisti perché si ricordino dell’esistenza di una linea da non oltrepassare.
Ad oggi, dopo più di una settimana, ancora nessun aggiornamento, né dichiarazione da parte delle autorità.
Elsa Pili