I visitatori si immergeranno in una sala buia. L’impatto con gli schermi accesi sarà dirompente: verranno incuffiati, impugneranno mouse e joystick, si proietteranno in Avatar, la mostra metaforica in programma presso il Museo Tridentino di Scienze Naturali dal prossimo 11 ottobre.
Per ora Avatar è un sito , un blog , una community , un account Twitter , un profilo sui social network e una manciata di immagini su Flickr: presto diventerà una mostra a tutti gli effetti, una mostra in cui non esistono sale ma un percorso che si dispiega attraverso ambienti sintetici. Il visitatore sarà completamente isolato rispetto alla fisicità dell’ambiente che lo circonda e completamente immerso in una socialità fatta di doppi, animata da conversazioni che passeranno da cuffie e microfoni. Sono contraddizioni che si diluiscono in una mostra da esperire impersonando un avatar , da visitare con la mediazione delle macchine. Si tratta di un’esposizione virtuale che ha l’intento di stimolare i visitatori a ritagliare il proprio significato di mondo virtuale, a comprenderne le dinamiche, a non temerle.
“Si è deciso di sovrapporre significato e significante” ha spiegato a Punto Informatico Carlo Maiolini , curatore della mostra: solo in questo modo, solo catapultando i visitatori in un mondo virtuale è possibile fargli esperire ciò che vivono migliaia di netizen in ambienti creati dalla collettività, alimentati dalla fantasia, popolati da persone rappresentate da alter ego di pixel. Che si tratti di World Of Warcraft piuttosto che di Second Life, di City of Heroes o di Everquest, tutti i mondi immateriali condividono il fatto di stabilire un patto con gli utenti: una volta effettuato l’accesso, il visitatore promette di sospendere l’incredulità e di immergersi in una dimensione altra rispetto alla realtà tangibile e quotidiana. Anche Avatar stipula questo contratto con il visitatore, e lo proietta in una dimensione nella quale sperimentare l’oggetto della mostra, i mondi virtuali.
Non è la prima volta che in museologia si lavora con esposizioni virtuali, ricorda Maiolini: fino ad ora, nonostante esistano precedenti virtuosi di concettualizzazione mediata dalla simulazione, la virtualità nella comunicazione scientifica ha incuriosito e spinto a sperimentare ma sembra non aver funzionato. Il problema principale, sottolinea, è probabilmente legato alla tecnologia dei motori grafici: fino a pochi anni fa erano molto costosi e non consentivano di creare ambienti e scenari dai quali gli utenti potessero venire incantati . Ma ora qualcosa si è mosso, i costi si sono ridimensionati, le tecnologie sono mature. Avatar è una mostra creata in un ambiente immateriale costruito da Moondus , una piattaforma sviluppata da Virtual Italian Parks , declinata per accogliere visitatori che non abbiano alcuna esperienza di metamondi online e per affascinare anche coloro che si confrontano quotidianamente con videogame e simulazioni.
Ma esiste un altro motivo per cui le mostre virtuali hanno fallito in passato: numerose di queste esposizioni, chiosa Maiolini, venivano messe a disposizione in rete, venivano fruite attraverso il browser, confinate tra la solita poltrona e la scrivania affollata di scartoffie. Avatar costringe i visitatori a uscire di casa , li proietta in una dimensione di copresenza fisica con gli altri partecipanti e li immerge in un ambiente scenografico. Questa dimensione a cavallo tra fisicità e virtualità rende più accessibile la mostra e i contenuti veicolati anche a coloro che vedono il computer come un attrezzo da cui rifuggire. Maiolini cita gli studi condotti dall’ Indiana University : l’apprendimento sembra essere agevolato dall’immersività e dalla partecipazione e una mostra come Avatar non è che l’inizio di una sperimentazione che potrebbe ampliarsi verso numerosi altri orizzonti.
È così che in un ambiente rischiarato dalla sola luce degli schermi, una volta incuffiati e microfonati, i visitatori si caleranno progressivamente nella parte. I computer, per non spaventare i tecnofobi e per accentuare la sensazione di trovarsi in una realtà altra, saranno mimetizzati dentro catafalchi di cartone, postazioni presso le quali ciascuno impugnerà joystick e mouse e sarà invitato a lasciarsi guidare da un tutorial che li aiuterà a sperimentare e a prendere confidenza con l’interfaccia. Inizia da un non-luogo il viaggio immaginifico in Avatar: lo schermo riproduce la stanza nella quale i visitatori hanno appena preso posto. Una sola differenza cattura la loro attenzione: una porta rossa , un invito a varcare la soglia.
Ci si confronterà con se stessi nella prima sala virtuale, la stanza degli specchi: “I visitatori – illustra a Punto Informatico Maiolini – sono tutti uguali, sono nuovi coloni in un mondo altro”, la prima questione da dipanare è quella dell’identità. Ciascuno plasmerà il proprio avatar neutro, poi l’agnizione, la scoperta della propria identità e delle proprie maschere al cospetto di uno specchio di pixel. Nella seconda sala virtuale si comprenderà l’impronta della mostra, l’unico elemento che scioglie l’apparente contraddizione tra realtà fisica e realtà immateriale: la dimensione sociale . Ogni visitatore è dotato di cuffia e microfono: è un invito esplicito a schiudersi agli altri. Parlando al microfono, tutti i visitatori che si trovano nel suo raggio di azione sentono ciò che dice il partecipante rappresentato dall’avatar, possono commentare quanto avviene nelle stanze, possono familiarizzare e concretizzare, in tempi decisamente più brevi rispetto a quelli previsti dalle dinamiche di socializzazione mediate dalla rete, l’incontro con la persona che si cela nella postazione immersa nel buio a pochi metri di distanza. Questo aspetto della mostra, centrale per dimostrare come la componente sociale sia fondamentale nei mondi metaforici, si configura come un esperimento: lungo le dieci stanze virtuali, con la sollecitazione dei mini-giochi studiati per presentare questioni sfaccettate come la politica e l’economia dei mondi metaforici, crolleranno le inibizioni fra avatar impersonati da sconosciuti? Ci si incontrerà per bere un caffè, una volta varcata la porta blu che riporta alla realtà fisica?
L’obiettivo della mostra è intessere una riflessione sui mondi virtuali e i mondi simbolici, sulle metafore che condividono con la realtà l’elemento della socialità, del bisogno naturale e innato di stare in un gruppo: “In un mondo virtuale posso invitare altre persone a bere una birra – chiarisce con un esempio il curatore della mostra – la birra virtuale è semplicemente un simbolo, non ho bisogno materiale di avere sete: ciò dimostra che l’obiettivo è quello di condividere qualcosa con gli altri”. La mostra, assicura Maiolini, è stata orchestrata per consentire di interiorizzare il messaggio anche a coloro che non sanno cosa sia Internet e diffidano dai mondi metaforici, osservati attraverso la lente del sensazionalismo e dell’allarmismo dei media. Per diradare l’alone di inquietudine, “il messaggio della mostra è stato calibrato affinché fosse neutro”, come sono del resto neutri la tecnologia e il concetto stesso delle metafore vissute attraverso la rete. Maiolini si augura che anche “coloro che vedono il computer come un elettrodomestico che risiede nella stanza dei bambini si rendano conto che è una porta sul mondo”, e che decidano di varcare la porta rossa anche nella quotidianità.
a cura di Gaia Bottà