“Benedetta parola“, di Ivano Dionigi. Un libro non per tutti, forse, ma che tutti dovrebbero leggere: valga come primo consiglio per le letture dell’estate. Il motivo è semplice: se tutto è parola e la parola è tutto (poiché fin dalle origini la parola è stata la tecnologia più esplosiva della storia dell’uomo, tanto che anche la Bibbia la pone come genesi delle cose nel momento stesso in cui “il verbo si è fatto carne”). Un libro intriso di latinismo e filologia (ma comprensibile e divulgativo), nel quale la “cura della parola” diventa un atto di accusa contro il Web ed il suo linguaggio.
Ma sul Web non ricadono né anatemi, né colpe reali: semplicemente, proprio nell’incarnazione viva della globalizzazione trapela qualcosa di nuovo e di preoccupante che la parola ci sta indicando, ossia il distacco del significante dal significato. La parola troppo spesso perde il proprio stesso contenuto, distaccandosi così dalla propria storia, perdendo il proprio passato e diventando cosa vuota. In questa disgregazione si perde il codice che unisce le persone attraverso il dialogo, si autorizzano forzature ulteriori e si disperdono capitali accumulati in secoli di tensione evolutiva tra oralità e scrittura.
Si è rotto il patto, di catoniana memoria, tra le “cose” (res) e le “parole” (verba) […]. La parola non tiene più dietro alla cosa, divorzia da essa e persegue una sciagurata autonomia. Degradata a vocabolo e identificata con medium comunicativo, la parola rischia di perdere il proprio destino, e l’unico modo di renderle giustizia sembra essere il silenzio del lutto: “Nessuno parlava. Il poco che sapevano del poco che provavano si prestava poco a venir negato come a esser confessato. Allora non resta che il silenzio, questa fragile membrana tra la cosa mal nascosta e la cosa mal detta“.
Benedetta parola
La storia ci dice che questo non è mai stato buon presagio, ma al netto di possibili visioni distopiche è sempre e comunque stato segnale anticipatore di grandi cambiamenti: quando una comunità perde la propria lingua, sta per mutare la comunità stessa. Di fronte ad un cambiamento epocale, quindi, l’analisi della lingua può consentirci di guardare al passato per capire il futuro, senza che l’analisi si appiattisca su un eterno presente che annulla ogni profondità analitica e riduce tutto ad un limitato e superficiale “qui e ora”.
L’innovazione viene vista come una “ubriacatura del nuovismo“, una pornografia del nuovo che non consente più di cogliere quel che realmente è “disruption” rispetto a quanto semplicemente reitera, plasma o ridipinge elementi privi di novità. Si affonda così in un “inferno dell’uguale“, dove diventa difficile distinguere e far emergere, creando un contesto nel quale l’uomo tende a smarrirsi privo di riferimenti.
Eppure la parola offre riferimenti continui, ai quali sarebbe utile appigliarsi ripartendo dai capisaldi del greco, del latino, dell’evoluzione gergale, della virtù oratoria, . Non si tratta di tornare al passato o di rivendicarlo come verità: “sarebbe un delitto“, sentenzia l’autore. Ma aver cura della parola, tornare a capirla e ad usarla, ripristinare quella ricchezza di vocabolario su cui abbiamo costruito l’Italia, significherebbe attingere di umanesimo quello sforzo che la società sta ora investendo completamente nelle discipline scientifiche. Il feticcio della parola può essere un appiglio sul quale salvare quella multidisciplinarità di approccio di cui scuola, educazione, etica e lavoro hanno assoluto bisogno.
Che ne è oggi della parola? Ridotta a chiacchiera, barattata come merce qualunque, preda dell’ignoranza e dell’ipocrisia, essa ci chiede di abbassare il volume, imboccare la strada del rigore, ricongiungersi alla cosa.
Un libro che punta il dito contro le nuove tecnologie non per punirle, ma per salvarle: per magnificarne le possibilità, per salvaguardarle dalle deviazioni della semplificazione, per riscattarle dall’oblìo in cui rischiano di precipitare una società che tutto conosce senza nulla sapere, fatta di chi “blatera” pur essendo al tempo stesso “muto“.
Il libro di Ivano Dionigi è un volo pindarico che vola alto su secoli di evoluzione della lingua, usandola come filo conduttore dell’evoluzione di quell’unico essere vivente che ne è dotato: l’uomo.
La parola custodisce e rivela l’assoluto che siamo
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