Chi vuol assaporare il gusto vero del significato di libertà (e il rumore sordo della privazione della stessa) può affidare il proprio tempo all’approfondimento di Aliide Naylor che su Gizmodo ha raccontato al mondo cosa stia succedendo in queste settimane sul Web in Bielorussia. I disordini in atto nel Paese sono noti e le scorribande per le strade deserte con il mitra da parte di Lukashenko hanno fatto il giro delle tv di tutto il mondo. Quel che più difficile è sapere, è quanto succede dietro le quinte, laddove le telecamere non arrivano e la censura di Stato nasconde.
VPN è libertà
Internet, si sa, diventa spesso il canale primario per la protesta: è in linea teorica il canale molti-a-molti per eccellenza, che consente di mettere in collegamento i singoli e dare al contempo ad ognuno una opportunità di visibilità mainstream. WhatsApp per raccontare, YouTube per divulgare? La realtà è un’altra: quando il gioco si fa duro, il dittatore spegne la Rete, la ostacola filtrando il traffico e rende così i canali principali difficili da gestire. Ecco perché, in circostanze simili, altri strumenti quali Telegram e VPN diventano afflati di libertà.
Quando ad inizio agosto Lukashenko fermò la Rete, erano i giorni in cui la polemica per i brogli elettorali divampava: spegnere la Rete significava soffocare la rivolta impedendo ai rivoltosi di farsi massa, di alzare i toni e di far sapere al mondo quanto stava accadendo. Oggi, però, sopratutto nel mondo occidentale, spegnere la Rete è qualcosa di pericoloso poiché attira le attenzioni dei paesi liberi e genera pericolosi effetti collaterali per il mercato interno. Ecco perché lo stop durò pochi giorni, per poi praticare tecniche più sottili di spionaggio e di filtro del traffico.
Proprio in quei giorni le VPN diventarono tra gli strumenti più cercati del Web bielorusso, emergendo tra le app più cercate nel Paese per poter criptare il traffico e sfuggire alla censura di Stato. Le VPN, che da noi sono strumento di sicurezza in tempo di smart working (vedi la nostra guida alle VPN), in una dittatura diventano qualcosa di ben più alto, uno strumento portatore di valori e principi prima ancora che di tecnologia. Ovviamente l’alfabetizzazione informatica non è ancora sufficiente ben distribuita (né in Bielorussia, né altrove) e non tutti erano in grado di usare una Virtual Private Network, né molti sanno cosa fosse, né tanto meno c’era piena consapevolezza su quali fossero le migliori VPN (o le più sicure) sulla piazza: molti attivisti fecero quindi il possibile per dare una mano a rientrare nel dibattito collettivo attraverso questi strumenti, ideando modalità nuove per la circolazione delle notizie ed organizzandosi per consentire a chiunque di sfuggire dalla morsa di uno Stato dittatoriale.
Nelle ore in cui la dittatura ha affondato il colpo nel modo più rude, la Rete ha trovato un salvacondotto nelle VPN e nella pressione mediatica internazionale. La Rete non si ferma, questo ormai è un principio che il mondo ha metabolizzato: chiunque provi a mettersi contro, si metterà contro il mondo. Le VPN sono invece l’armatura di una protesta che ha bisogno, oltre che di poter fluire, anche di mantenere l’anonimato: anche il Bielorussia i rapporti tra il dittatore e la Rete saranno complessi, come ormai vuole una lunga letteratura che vede le due posizioni agli antipodi.