La recente decisione presa da Pechino, che ha portato alla messa al bando di ogni attività legata alle criptovalute in tutto il paese, ha inevitabilmente spinto coloro impegnati nell’attività di mining a cercare nuovi lidi. Come abbiamo già avuto modo di scrivere su queste pagine, non è detto sia un bene dal punto di vista della sostenibilità ambientale, per ragioni legate all’approvvigionamento di energia. Stando a un nuovo report del Cambridge Centre for Alternative Finance, le operazioni si sono spostate principalmente negli Stati Uniti, almeno con riferimento all’asset più popolare di questo ambito, ovviamente Bitcoin.
Fuga dalla Cina, il mining di BTC si sposta negli USA
In Cina, l’hash rate (che in estrema sintesi indica la potenza complessiva a disposizione del network) è sceso dal 44% della quota globale registrato a maggio fino a raggiungere lo zero attuale. Riavvolgendo il nastro del tempo, due anni fa era al 75%. Nel frattempo, negli USA è salito fino a oltre il 35% (dato aggiornato a fine agosto), incrementando di più del 20% da aprile.
Following the crackdown of mining operations in China, the United States now mines more Bitcoin than any other country in the world.
An updated Cambridge Electricity Bitcoin Index (CBECI) shows an increase of almost 20% in the USA's share of global hashrate since April 2021.
— Cambridge Judge (@CambridgeJBS) October 13, 2021
Nel momento in cui viene scritto e pubblicato questo articolo, il prezzo di Bitcoin si attesta a 56.365 dollari (fonte CoinDesk), in calo rispetto agli oltre 57.000 dollari di ieri.
Quanta energia consuma BTC? Secondo una recente stima, 91 TWh nel 2021 (erano 67 TWh nel 2020), l’equivalente necessario per soddisfare il fabbisogno di un intero paese come il Pakistan.