I dati che il New York Times ha messo assieme in queste ore non sono nuovi, non sono scritti sulla pietra (molte le contestazioni metodologiche che circondano le disamine sul mondo del mining), ma sono forti proprio per il modo in cui restituiscono nella giusta misura quale sia l’impatto delle criptovalute sul mondo. Che la galassia crypto abbia sposato la sostenibilità, infatti, è un tema difficile da supportare. Può interessare poco agli investitori, sia chiaro, per i quali l’unico interesse vero sta nel trading e nelle possibilità di lucro correlate. Ma il tema non può non interessare quanti operano strettamente a contatto con la “produzione” di Bitcoin e affini.
91 terawattora all’anno
91 terawattora all’anno: questo il consumo di elettricità stimato per la creazione annuale dei Bitcoin. 91 miliardi di kilowattora, qualcosa che il New York Times stima come superiore a molte nazioni al mondo, nonché all’equivalente di circa 7 Google con tutti i suoi datacenter ed i suoi servizi per miliardi di persone. La domanda sottesa è chiara: ne vale la pena? Ma si tratta di un giudizio di rango più elevato, prima del quale bisogna porsi una domanda di equità e sostenibilità: è immaginabile un ruolo sul mercato per un asset dai consumi tanto elevati?
Elon Musk a suo tempo ha tagliato corto sul problema: quando il mondo Bitcoin avrà dimostrato di poter utilizzare almeno il 50% di energia pulita, allora si potrà tornare a pensare di adottarlo per i sistemi di pagamento in Tesla (opzione prima concessa e poi presto negata). La soluzione Musk è parsa sbrigativa, ma ha colpito nel segno: se le criptovalute intendono proseguire la propria crescita, debbono assumersi anche le responsabilità che il ruolo impone. La sostenibilità, in primis, fa parte delle virtù che una nuova moneta digitale ha il dovere di abbracciare.
Non sarà facile. Il processo di gestione dei pagamenti, delle transazioni e del mining opera in senso anti-economico per sua stessa natura, ma questo si scontra con la realtà quando dai ragionamenti sulla Blockchain si passa alla concretezza dei barili di petrolio necessari per tenere in piedi il sistema. Le stime della Cambridge Bitcoin Electricity Consumption Index indicano una stima complessiva, che deve però fare i conti anche con una geopolitica del mining che vede la Cina sempre più defilata e altri Paesi (tra i quali il Kazakistan o la Russia) che cercano un ruolo sulla base di costi dell’energia tenuti bassi proprio grazie alla disponibilità di carburanti fossili.
La situazione delle criptovalute è in continua evoluzione e se il nodo ecologico fosse risolto si aprirebbero grandi praterie di opportunità. Ma è questo un passo tecnico e politico non banale, dietro al quale presto o tardi potrebbero celarsi nuove pressioni internazionali. Un mondo che discute di protocolli per la sostenibilità può accettare un elefante che corre in questo stretto corridoio? La forza di numeri come quelli presentati dal New York Times non può passare inosservata.