Il mining è alla base degli algoritmi matematici capaci di generare i Bitcoin, e sviluppatori senza scrupoli non hanno problemi a infilare codice per mining nelle proprie app per cellulare senza avvertire in alcun modo l’utente. Due di queste app “infedeli” sono state recentemente scoperte da Trend Micro sul marketplace di Android, e sono ancora disponibili per il download da parte degli utenti.
Oltre al fatto di nascondere gli algoritmi di mining dietro funzionalità di facciata, la pericolosità delle due app deriva dal loro essere presenti sullo store ufficiale di Google: i download delle app si contano a milioni, mentre il mining “scatta” solo quando il cellulare viene messo sotto carica per massimizzare la velocità di calcolo e minimizzare la possibilità di essere scoperti.
Vista la scarsa potenza di calcolo degli smartphone, gli sviluppatori delle app di mining non potranno naturalmente contare su una gran quantità di Bitcoin alla fine della loro operazione, senza contare dell’abuso della fiducia degli utenti.
Chi invece intende conquistarsi una fetta importante del business di mining Bitcoin è Dave Carlson, imprenditore statunitense che ha deciso di investire in un cluster di chip specializzati (BitFury) e schede Raspberry Pi (con software custom) per arrivare a coprire tra il 7 e il 10 per cento dell’intero mercato di mining.
Carlson – che già possiede 5.000 Bitcoin e che non ha intenzione di liberarsene tanto presto – dovrà però fare i conti con un mercato sempre più incerto, dove la recente decisione delle autorità fiscali statunitensi (i Bitcoin sono una proprietà, non una moneta) si abbatte sul valore sempre altalenante della criptomoneta, e dove un ex-colosso dello scambio BTC come Mt.Gox deve fronteggiare l’accusa di aver mentito sulla reale perdita di Bitcoin e sulle cause che l’avrebbero generata.