Come regolamentare lo smart working in epoca di “Nuova normalità”? Come meglio definire i rapporti di lavoro quando la pandemia sarà terminata ed occorrerà riflettere sullo smart working come nuova modalità integrata di collaborazione? La riflessione dovrà contemplare tutte le parti in causa: il lavoratore, che rischia di perdere per la strada una serie di agevolazioni che in precedenza venivano utilizzate ad integrazione dello stipendio mensile; l’azienda, che deve improntare i rapporti di lavoro su nuovi cardini che non si limitano al calcolo orario della presenza del singolo operatore; lo Stato, che in questa fase di transizione dovrà capire quale modalità stimolare e quale limitare, affinché il tutto possa anche ricondursi più generalmente ad una politica del lavoro più lungimirante ed efficiente.
In mezzo a questo polverone di condizioni e ipotesi, è spuntata anche l’idea di un “Bonus smart working” che dovrebbe da una parte consentire alle aziende di avventurarsi più facilmente in questo cambiamento, e dall’altra far sì che i lavoratori non si trovino a fare i conti con l’improvvisa scomparsa di buoni pasto e ore di straordinario (elementi fondamentali per rimpinguare gli stipendi nel recente passato). Come gestirlo?
Bonus smart working
Ad oggi il tutto si riconduce a mere ipotesi, spesso lanciate sul tavolo proprio al fine di raccogliere i primi feedback e sentire il polso dei cittadini (nonché, in questo caso, dei sindacati). I dettagli faranno la differenza, ma per il momento si ipotizzano rimborsi forfettari per i lavoratori a domicilio, affinché possano più che compensare le spese sostenute presso la propria abitazione (ad esempio sulle bollette) e si possano così ritrovare con stipendi stabili, ma con spese casalinghe ridotte. In Germania l’ipotesi è simile, immaginata in formula forfettaria nell’ordine dei 5 euro al giorno. Ciò avrebbe un impatto più immediato sul portafoglio, aggirando l’istituzione tradizionale dei buoni pasto e rimescolando probabilmente le carte presso tutte quelle aziende di intermediazione che ad oggi gestivano il welfare aziendale con i propri servizi.
Il problema non è di immediata urgenza perché la statistica ci suggerisce il fatto che la rimozione delle restrizioni sul lavoro non scompariranno ancora per alcuni mesi: i timori di una terza ondata non sono in alcun modo fugati e non si può immaginare un rientro alla normalità piena se non dopo la prima metà dell’anno. Tuttavia le riflessioni sullo smart working debbono necessariamente andare oltre l’emergenza, poiché è ormai chiaro il fatto che, se i necessari equilibri saranno trovati, si potrà immaginare un nuovo regime con lo smart working organicamente incluso nelle strategie aziendali per compagnie di ogni settore e dimensione.
La sfida, sia politica che sindacale, sta nell’accettazione dell’improvviso cambiamento avvenuto: opporre resistenze non potrà sortire risultati che non siano un danno per l’intero ecosistema lavorativo. Tra le maglie di tutto ciò resta però un problema ulteriore che solo vere politiche di intervento (e non soltanto improvvisati bonus) potranno risolvere: il proliferare di partite iva nate per facilitare lo smart working dove in precedenza la regolamentazione era limitativa, rischia di penalizzare una volta di più questo tipo di lavoratori. Non se ne esce se non con una revisione delle politiche del lavoro ben più ampia, un vero e proprio salto carpiato rispetto alle troppe anacronistiche discussioni degli anni passati. Ogni qualsivoglia bonus sarà utile a guidare la transizione assorbendo shock e frizioni tra le parti, ma non potrà restare a lungo nell’ordine delle cose: sarebbe segno di inerzia politica e mancata visione, che si rischierebbe di pagare a caro prezzo in prospettiva.