Indossano un caschetto che li proietta in una realtà virtuale, l’aria intrisa degli odori più familiari: di fronte a loro si parano un bancone e un barman compiacente, una tabaccheria ben fornita, delle sigarette, accendini e portacenere. I sintomi dell’astinenza si acuiscono, nonostante l’ambiente che li circondi sia fittizio. I pazienti sotto trattamento da realtà virtuale imparano a rinunciare, possono superare le sofferenze fisiche e i vincoli psicologici che li legano alla loro dipendenza.
L’uso della realtà virtuale nella cura delle dipendenze è oggetto di studio da parte di Patrick Bordnick , docente di scienze comportamentali presso lo UH Graduate College of Social Work , autodefinitosi visionario dell’interazione uomo macchina. In uno studio che ha trovato spazio sulla pubblicazione scientifica Addictive Behaviors ha dimostrato che spazi paralleli alla realtà, ambienti simulati, possono costituire un adeguato terreno di sperimentazione per i pazienti che tentano di svincolarsi da una dipendenza .
Le sue aspettative nei confronti della realtà virtuale scaturiscono da un esperimento condotto su 40 alcolisti che non si sottoponevano ad alcun tipo di cura: ha fatto loro indossare un casco, li ha guidati nella simulazione di un evento mondano, dentro ad un bar, ad una festa nella quale potevano accostarsi ad un buffet che esponeva ogni tipo di bevanda. Erano simulazioni fornite da Virtually Better , azienda specializzata in soluzioni di realtà virtuale per combattere dipendenze e paure: i mondi paralleli che allestisce, oltre a simulare delle situazioni che il soggetto ha timore di affrontare, pullulano di striscianti tentatori imbottiti di sigarette, e equipaggiati di ogni tipo di alcolico. All’occorrenza compaiono anche ammiccanti spacciatori, ambienti dalla luce soffusa e quanto serve per allestire un’assunzione delle sostanze più disparate.
Ma la simulazione a cui Bordnick ha sottoposto il gruppo di soggetti era ancora più realistica: gli avatar che ordinariamente popolano i campi di prova di Virtually Better sono stati sostituiti da attori reali , mentre nell’ambiente in cui si è effettuato il test sono stati diffusi gli odori che si percepiscono nelle situazioni messe in scena: quello acre del fumo di sigaretta, quello pungente del gin, i profumi che si percepiscono ad una festa.
Ciascuno dei soggetti coinvolti nel test, per i 18 minuti di immersione nell’evento simulato, ha operato un’autovalutazione della propria condizione: ha espresso in pressioni del joystick l’intensità dell’attenzione che dedicava al proprio drink preferito, e la severità dei sintomi dell’astinenza. All’esperimento è seguita un’intervista, nella quale i soggetti hanno potuto tradurre in parole le sensazioni provate: Bordnick ha osservato che l’intero gruppo si è immerso nella realtà simulata come se fosse un ambiente reale .
Vedere una bottiglia attraverso il caschetto ha innescato in loro le stesse reazioni che avrebbero sperimentato in presenza di una vera bottiglia: il desiderio incontrollabile di impugnare il bicchiere, il tremito della mano per afferrarlo, il pensiero totalizzante dell’alcol. “Abbiamo riscontrato che i partecipanti al test hanno avuto delle risposte reali agli stimoli simulati” ha annunciato Bordnick: gli ambienti virtuali, a parere dello studioso, potrebbero dunque soppiantare le simulazioni che il terapista effettua con il paziente con il solo ausilio dell’immaginazione.
La realtà virtuale è già utilizzata come uno strumento per stimolare sensazioni in pazienti affetti da problemi di salute: coloro che hanno subito delle ustioni vengono proiettati in ambienti glaciali , e la simulazione sembra loro alleviare la sofferenza. Quello che propone Bordnick non è però un palliativo, ma una vera e propria terapia d’urto: “Ora è necessario sviluppare nel paziente delle abilità per far fronte a questi stimoli – spiega Bordnick – allenare i pazienti in questi ambienti così realistici finché le abilità che aiuteremo loro a sviluppare non saranno abbastanza solide perché possano affrontare la vita reale”. Bordnick non ha dubbi: mettersi alla prova in un ambiente virtuale consentirà alle persone di svincolarsi dalle dipendenze. Ammesso e non concesso che non entri in gioco quella che lo psichiatra Massimo Di Giannantonio ha definito trance dissociativa da videoterminale : il paziente immerso nell’ambiente simulato potrebbe finire per diventare un clone della propria patologia.
Gaia Bottà