Roma – La seconda lettura della proposta di direttiva sulla brevettabilità delle “Invenzioni Implementate tramite Elaboratore” (“Computer Implemented Inventions” o CII, definizione piuttosto sofistica che è stata data ai brevetti sul software) si sta avvicinando sempre più. Un’intensa attività di lobbying da entrambi gli schieramenti – anche se si potrebbe discutere sulla liceità di paragonare le forze di lobbisti di professione profumatamente pagati e le attività dal basso di un gruppo di volontari, per quanto numerosi – sta dando forma ad un dibattito pubblico in modi che poche altre decisioni politiche nell’ambito dell’IT hanno visto.
Per cercare di capire meglio le questioni in ballo, ho intervistato Philippe Aigrain , attualmente direttore di SOPINSPACE (Society for Public Information Spaces), un’azienda che sviluppa software libero e open source innovativo e fornisce servizi per l’organizzazione di dibattiti pubblici e attività cooperative basate su Internet.
Prima di fondare Sopinspace, Philippe Aigran è stato “Head of Sector” per “Software Technology and Society” all’interno della Commissione Europea (Direttorato Generale “Information Society”). In questo periodo ha lavorato per impostare i programmi a sostegno dell’innovazione basata su Software Libero/Open Source. Ha partecipato alla preparazione del quinto e del sesto programma quadro, sia per quanto riguarda le tecnologie dell’informazione, sia per quanto attiene ad aspetti più generali relativi ai criteri di valutazione e alle regole per la gestione della proprietà intellettuale. Aigrain detiene un dottorato e la “habilitation à diriger les recherches” in informatica. Ha lavorato per vent’anni nella ricerca sul software e sul multimedia, all’interno di laboratori di aziende e come capo del gruppo di ricerca “Media analysis and interaction” del “Institut de Recherche en Informatique de Toulouse”. Infine, è l’autore di “Cause commune: l’information entre bien commun et propriété”, Edizioni Fayard, 2005.
Dato che i Suoi studi non sembrano essersi focalizzati sul diritto di proprietà intellettuale, vuole spiegarci quando e come si è confrontato per la prima volta con questo argomento, e specificamente con i brevetti sul software?
R: In effetti non ho studiato legge, ma informatica. Tuttavia, nel corso della mia carriera, ho sviluppato un forte interesse per ciò che le persone fanno con la tecnologia e l’informazione, e ciò mi ha condotto a ricercare e pubblicare nell’ambito della storia, della filosofia o della sociologia della tecnologia in parallelo con la mia attività di innovazione o di studioso delle politiche della ricerca. Forse è questa la ragione per cui, quando sono entrato in contatto per la prima volta con le questioni inerenti la brevettabilità del software, dei metodi di processo dell’informazione e dei dati genetici, ho affrontato tali questioni da un punto di vista più ampio della maggior parte degli specialisti in campo legale. Probabilmente è anche per questo motivo che ero pronto a investire più energia su questi argomenti della maggior parte degli scienziati, che all’epoca semplicemente scartavano l’idea dei brevetti sul software come un’assurdità, senza realizzare che questa assurdità stava rapidamente guadagnando terreno all’interno dei circoli specializzati (uffici brevetti, consulenti e giuristi).
La prima volta che mi sono resto conto delle problematiche relative ai brevetti sul software è stato quando dirigevo un gruppo di ricerca nel campo delle tecnologie dell’informazione applicate ai media (immagini ferme, video e musica). Ci rendemmo conto che i nostri “concorrenti” in USA, Giappone, Singapore e Israele avevano fatto domande di brevetto (negli USA e in Giappone) su degli algoritmi di analisi video .
I dipartimenti per il trasferimento di tecnologia degli istituti pubblici di ricerca avevano cominciato a valutare la possibilità che i nostri algoritmi (che noi non abbiamo brevettato, nel caso se lo stia chiedendo) venissero brevettati (negli Stati Uniti).
Parallelamente, seguivo i dibattiti circa uno dei primi contenziosi sui brevetti software, il brevetto Compton (Encyclopedia Britannica) sugli ipermedia, perché il mio lavoro era citato come “prior art” all’interno della richiesta di brevetto. In effetti, l’articolo del 1945 di Vannevar Bush, “As you may think” e tutto il lavoro di Ted Nelson su Xanadu, costituiva “prior art” del brevetto in questione.
Tutto ciò per dire che non era completamente ignaro dei problemi, ma si può tranquillamente affermare che fino alla fine del 1998, quando divenni capo dell’unità “software” all’interno del programma europeo IST, non avevo le idee chiarissime sul problema dei brevetti software. All’epoca ero molto più preoccupato circa il diritto di citazione per il materiale audiovisivo, perché l’assenza di tale diritto (in termini pratici) mi sembrava un blocco al potenziale di alfabetizzazione del media audiovisivi, dunque pericoloso per la democrazia. Ne sapevo di più sui dibattiti circa i brevetti sulle sequenze geniche che non sul software!
Tutto ciò cambiò rapidamente quando venni avvertito da alcuni sviluppatori di Software Libero / Open Source e da altre persone che una direttiva, che ufficializzava la recente pratica dell’Ufficio Europeo dei Brevetti (European Patent Office, EPO) di concedere brevetti sul software, era in preparazione. Il processo di regolamentazione era iniziato , molto discretamente, circa due anni prima nascosto all’interno di varie consultazioni sul futuro del sistema brevettuale europeo, consultazioni che avevano attirato l’attenzione solo dei circoli specializzati sull’argomento dei brevetti.
D: Mi pare di capire, dalle posizioni pubbliche che Lei ha assunto, che Lei sia contrario all’idea di applicare il sistema brevettuale alle idee astratte e specificatamente al software. Potrebbe specificare la Sua posizione più dettagliatamente?
R: In effetti, penso che non si debbano applicare i brevetti a qualsiasi entità che possa essere “pienamente” rappresentata dall’informazione. Ciò significa il software, gli algoritmi e i metodi per il processamento dell’informazione (tre modi per rappresentare e descrivere la stessa cosa) che Lei ha giustamente descritto come “incarnanti” idee astratte (assemblandole in un’entità manipolabile tecnicamente). Ma ciò si applica anche alle sequenze genetiche, o ai contenuti genetici di semi e organismi.
Come molti che si oppongono ai brevetti software, ho sottolineato quanto eticamente discutibile sia la concessione di monopoli proprietari a queste moderna forma di idee. Come molti che si oppongono alla brevettazione delle sequenze geniche e degli organismi biologici, ho sottolineate quanto eticamente discutibile sia la concessione di monopoli proprietari su scoperte o risorse essenziale per l’umanità. Tuttavia, credo che il modo più generale e rilevante per delineare la mia posizione risieda nel concetto di informazione, su come ciò che può essere “pienamente” rappresentato da essa non possa mai essere brevettato. Vi è molta complessità non visibile insita nel significato di “pienamente”, associato a “pienamente rappresentato”. Con ciò intendo catturare l’enorme differenza che separa:
– la relazione tra il disegno di una macchina e la macchina, e
– la relazione tra un algoritmo ed un programma che ne è una delle implementazioni, o tra la codifica di una sequenza del DNA e quella particolare sequenza.
Nel primo caso la differenza risiede nella costruzione e nella verifica delle linee di montaggio. Quando si ha l’idea di un oggetto da costruire, in realtà tutto il lavoro è ancora da fare. Mentre, al contrario, esiste quasi una equivalenza tra gli algoritmi (che vengono comunicati sotto forma di pseudo-codice) e il software.
D: Pensa che l’intera idea dei “brevetti” applicati al software sia fallace, o secondo Lei sarebbe teoricamente possibile modificare il sistema brevettuale in modo da renderlo uno strumento utile per l’innovazione incrementale e basata sul software?
R: Penso che sia impossibile “riformare il sistema brevettuale” o adattarlo in modo tale da diventare uno strumento adeguato a fornire le condizioni necessarie all’innovazione software. Persino in un mondo diverso, dove gli accordi TRIPS non esistessero e non imponessero una durata dei brevetti di almeno 20 anni, dove gli uffici brevettuali fossero finanziati con soldi pubblici e sotto un vero controllo pubblico, ciò sarebbe ancora impossibile, semplicemente per via della natura del processo di esame (“examination”) che è richiesto dal sistema brevettuale.
Molti sottolineano l’esistenza di numerosi brevetti software “fatti male” e che possiamo correggere questa situazione. Non penso che possiamo farlo, perché una proprietà intrinseca dell’innovazione nel dominio dell’informazione è che si possa prendere un’idea da un dominio e applicarla ad un altro dominio, mascherandola utilizzando termini diversi, cosicché l’intero processo di esaminare il brevetto diventa un compito veramente impossibile , persino impiegando migliaia di esaminatori e basi dati di “prior art”. Ma ancor più credo che i cosiddetti brevetti software “buoni” siano in realtà i peggiori perché monopolizzano, ad esempio, un algoritmo che è ottimale per un particolare dominio.
D: Durante le Sue attività all’interno della Commissione Europea, Lei è stato uno dei proponenti e implementatori della politica verso il FLOSS all’interno dei programmi di finanziamento europei per la ricerca e sviluppo. Un elemento che colpisce molto quando si esamina la posizione della Commissione Europea è come da un lato essa sembri favorire il FLOSS – durante il quinto e sesto programma quadro sono stati finanziati diversi progetti FLOSS ambiziosi – mentre dall’altro lato spinge per delle regolamentazioni che uccideranno chiaramente il FLOSS (naturalmente, quest’ultimo non è l’unico che rischia, dato che i brevetti software colpiranno anche gli sviluppatori e i fornitori di software proprietario, pur se questi ultimi hanno almeno qualche forma di struttura gestionale e legale per negoziare con i detentori dei brevetti). Potrebbe illustrarci la Sua opinione circa questa contraddizione?
R: Questa contraddizione non è così sorprendente, per due ragioni. Prima di tutto le politiche europee sono state create seguendo un processo cumulativo, aggiungendone di nuove, ognuna seguendo le proprie priorità, senza dei reali meccanismi di arbitraggio. Secondariamente, la Commissione, come qualsiasi altra organizzazione, è costituita da persone, e per loro natura le persone interpreteranno la propria missione in modi differenti, cercando di ottenere un’approvazione politica per differenti tipi di scelte.
Tuttavia, in assenza di una reale architettura per mediare le differenti politiche, è il meccanismo di influenza delle lobby , proporzionalmente al proprio peso finanziario, o semplici idee come il fondamentalismo della proprietà, o un economicismo miope che fungono da arbitri. Si è resa necessaria una vera riforma intellettuale, e quest’ultima sta guadagnando terreno all’interno della scena intellettuale, ma serviranno ancora un po’ di anni prima che essa possa esercitare una vera influenza su una nuova generazione di politici e funzionari pubblici.
D: Lei è l’autore di un libro, “Cause Commune”, in cui presenta un approccio in un certo senso olistico alle questioni inerenti il diritto di proprietà intellettuale di questi ultimi decenni, e a come la proprietarizzazione dei “Commons” stia conducendo verso una situazione sempre più problematica e tesa. Le dispiacerebbe focalizzare l’attenzione sul ruolo dei brevetti software all’interno di questa tendenza generale verso l’iper-proprietarizzazione, e quali saranno – secondo Lei – gli effetti sul medio e lungo periodo di tale tendenza?
R: Nel mio libro, descrivo i brevetti software alla stregua di un ultimo stadio della proprietarizzazione , perché attraverso il software e i metodi di processamento dell’informazione si possono monopolizzare i processi umani, sociali e tecnici di tutti i tipi, dai metodi terapeutici all’istruzione, anche quando questi processi sono formalmente non brevettabili. Questo è il motivo per cui questa battaglia è così importante. Tuttavia, la realtà resiste al dogma. Anche se i brevetti software saranno ufficializzati in Europa (e dunque nel mondo intero) il potere dell’innovazione cooperativa troverà comunque la sua strada. Per esempio, dico spesso che i brevetti software non uccideranno il Software Libero, ma danneggeranno i benefici che le società possono ottenere dal Software Libero e in generale dalle tecnologie comunicative e dell’informazione.
D: L’anno scorso la Commissione Europea ha lanciato un bando per uno “Study into effects of allowing patent claims for computer-implemented inventions” (contratto ufficiale pubblicato su OJ n. 2004/S 165-142264). Potrebbe sembrare che la Commissione Europea non sappia bene in che direzione sta andando, poiché da un lato spinge per una “armonizzazione” (che significa sempre armonizzazione verso una maggior protezione) e dall’altro dice chiaramente di non essere pienamente consapevole degli effetti possibili che tale “armonizzazione” potrebbe produrre. Le dispiacerebbe commentare su tale asimmetria o, se ha informazioni in merito, sulla specifica utilità di tale studio?
R: No comment. Deve chiedere alle persone al timone.
D: Un aspetto particolarmente preoccupante dell’intero processo politico sui brevetti software è stato il modo in cui le regole procedurali sono state piegate per raggiungere un fine predeterminato – sto pensando specificatamente all’introduzione di una “posizione comune” tramite un “item A” da parte del Consiglio Europeo in data 7 Marzo, un’azione chiaramente al limite delle procedure legali.
Come presidente di Sopinspace penso che il problema della trasparenza nelle discussioni sulle politiche pubbliche sia per Lei di particolare importanza: Le dispiacerebbe commentare circa la responsabilità delle istituzioni pubbliche, con particolare riferimento al dibattito sui brevetti software?
R: Il dibattito sui brevetti software è stato in realtà più aperto di molti altri. Questo è il motivo per cui la gente si è resa conto, più che in altre occasioni, delle debolezze della fase legislativa preparatoria e del processo legislativo in generale. Penso che sia sia necessaria e urgente una riforma a tutti i livelli, ma per quanto riguarda il contributo di un dibattito pubblico è evidente che quest’ultimo è particolarmente utile nella fase legislativa preparatoria.
Uno dei problemi è che – e specificamente nel dominio del Mercato Interno – il numero di direttive e proposte di regolamentazione (leggi quadro (“framework laws”) per usare il linguaggio del trattato costituzionale) deve essere sostanzialmente ridotto. Questa è una condizione necessaria per avere il tempo sufficiente ad un dibattito veramente aperto durante la fase preparatoria, e per evitare la situazione scandalosa per cui gli eurodeputati sono sommersi da testi di leggi le cui conseguenze sono così complesse da capire che solo pochi di essi diventano “specialisti” della questione e al tempo stesso, bersagli per l’attività delle lobby. Un dibattito pubblico veramente aperto, in tutte le sue varietà, da conferenze dei cittadini alle discussioni sul Web, è uno strumento che non ha come obbiettivo quello di rimpiazzare la democrazia rappresentativa, ma di renderne possibile l’operato in un mondo di interdipendenze e complessità.
Molte altre riforme sono necessarie per (ri)generare una vera democrazia europea. Ho cercato di affrontarne alcune in un mio recente scritto .
a cura di Andrea Glorioso
NOTA
Andrea Glorioso è un consulente indipendente (il suo CV è disponibile ). Attualmente lavora soprattutto per Media Innovation Unit , l’unità di ricerca di Firenze Tecnologia (azienda speciale della CCIAA di Firenze) dedicata alla ricerca, sviluppo e promozione di Software Libero, Contenuti Aperti, Reti Decentralizzate e Nuovi Media. Risiede a Padova, ma vive tra treni, aerei e hotel. Se volete discutere con lui dei contenuti di questo articolo, scrivete a: andrea (at) digitalpolicy (dot) it.
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