Roma – L’attuale dibattito sulla brevettabilità del software non è ridotto, come sostiene il Ministro Stanca, ad un “si ai brevetti o no ai brevetti”. Le PMI europee infatti vogliono i brevetti industriali, ma hanno più volte rifiutato il testo attuale della Direttiva. La questione, come sostiene lo stesso Ministro, è ben più complessa.
C’è troppa confusione, diffusa ad arte da chi vuole impedire un sereno confronto basato sui fatti, sulla scienza e sugli obiettivi strategici di Lisbona. Siamo tutti preoccupati dalla crisi dell’innovatività europea, dalle fughe di cervelli e dalla concorrenza dei paesi ormai non più emergenti, come la Cina. Le PMI europee però non sono affatto certe che le ricette dettate dagli USA e da imprese con base in USA siano efficaci per far riprendere l’economia europea. La Commissione Europea sta lanciando lo sviluppo del settore IT europeo a tutta velocità contro un muro di cemento.
Contrariamente a quanto sostiene la propaganda del Commissario McCreevy e degli uffici brevetti europeo e nazionali, il testo attuale pare proprio aprire alla brevettabilità di algoritmi, idee e metodi commerciali. Secondo alcune interpretazioni, la dimostrazione sarebbe nascosta tra le pieghe del testo della direttiva attraverso un artificio retorico basato sul concetto “A non è brevettabile, a meno che si verifichi la condizione B”.
Per esempio, l’articolo 5(2) del testo approvato il 7 Marzo dal Consiglio, recita:
2. La rivendicazione riguardante un programma per elaboratore, da solo o su un vettore, non è ammessa a meno che il programma, caricato su un elaboratore elettronico programmabile, su una rete di elaboratori programmabili o su un altro apparecchio programmabile, realizzi un prodotto o attivi un processo rivendicato nella medesima domanda di brevetto a norma del paragrafo 1.
È evidente che questa condizione si verifica sempre. Qualsiasi programma per elaboratore “realizza un prodotto o attiva un processo”, per cui il brevetto può riguardare il programma “in quanto tale”. E se non riguarda il programma in quanto tale, riguarda sicuramente il processo. Come fa allora il Commissario McCreevy (e gli altri prima di lui) a sostenere che il testo approvato non consentirebbe ad Amazon oggi di brevettare il suo metodo commerciale noto come “one-click buy”?
Proseguendo, l’articolo 4a(1) recita:
1. Un programma per elaboratore in quanto tale non può costituire un’invenzione brevettabile.
Questo testo contraddice l’articolo 5(2). Fu introdotto nella sessione del Consiglio del 18 Maggio 2004 dal Commissario Bolkenstein per convincere il ministro della giustizia tedesco, Brigitte Zypries, la quale interpretò con troppa superficialità il testo. Infatti i programmi per elaboratore non possono essere contemporaneamente brevettabili (Art.(5)2) e non brevettabili (Art. 4a(1)). Per risolvere il dubbio bisogna interpretare l’articolo successivo, il 4a(2), che recita:
Un’invenzione attuata per mezzo di elaboratori elettronici non è considerata arrecante un contributo tecnico per il semplice fatto di implicare l’uso di un elaboratore, di una rete o di un altro apparecchio programmabile. Pertanto, non sono brevettabili le invenzioni implicanti programmi per elaboratori, in codice sorgente, in codice oggetto o in qualsiasi altra forma, che applicano metodi per attività commerciali, metodi matematici o di altro tipo e non producono alcun effetto tecnico oltre a quello delle normali interazioni fisiche tra un programma e l’elaboratore, la rete o un altro apparecchio programmabile in cui viene eseguito.
Bolkenstein ha introdotto clausole ridondanti ed inutili come “in codice sorgente, in codice oggetto o in qualsiasi altra forma”. Nessuno vorrebbe chiedere un brevetto per il singolo codice scritto da un programmatore, visto che tale codice è già coperto (gratuitamente) da diritto d’autore: sarebbe un brevetto troppo ristretto da non giustificare il suo costo.
Ma la chiave di questo articolo sta nelle parole “normali interazioni fisiche tra un programma e l’elaboratore”. Queste hanno lo stesso significato di “normali interazioni fisiche tra una ricetta e il cuoco”: non hanno senso. Invece si tratta di una formula magica il cui uso può essere rintracciato in una recente decisione dell’Ufficio Brevetti Europeo in cui è servita a giustificare un brevetto su regole di calcolo geometrico attribuito a IBM . Nel caso attuale l’ulteriore effetto tecnico (oltre le normali interazioni fisiche) consisteva nel risparmio di spazio visivo su uno schermo.
Va fatto notare che il Consiglio ha rifiutato l’articolo 4B proposto dall’Europarlamento che avrebbe chiarito in modo più restrittivo il senso del termine “ulteriore effetto tecnico”, basato sulla decisione di una corte tedesca che sancì il principio per cui il risparmio di risorse computazionali non costituisce “contributo tecnico” perché altrimenti qualsiasi metodo commerciale implementato tramite calcolatore sarebbe brevettabile.
Nokia o Siemens non hanno nulla da temere dal chiarire, come aveva proposto l’Europarlamento, che “l’elaborazione dati non è oggetto di invenzione”. Dovrebbero parlare di più con manager finanziari e ingegneri, piuttosto che con i loro avvocati.
Il compito dei governi, specie di quelli che si dichiarano liberisti, è di evitare di influire troppo sul mercato.
È vero che ci sono già ventimila brevetti software elargiti dall’Ufficio Brevetti Europeo (EPO), ma facciamo notare al Ministro Stanca che l’EPO è un ente privato, come la SIAE in Italia, il cui budget proviene anche dal numero di brevetti rilasciati. Non sorprende quindi che l’EPO ritenga che la frase “il software in quanto tale non è brevettabile” sia ambigua. Solo chi ha interesse diretto a creare l’ambiguità trova giustificazioni.
Abbiamo quindi bisogno di una direttiva che chiarisca all’EPO che l’elaborazione di dati non è materia brevettabile, comunque questa venga realizzata. Siamo altresì convinti che prima che vengano concessi ulteriori monopoli dai governi, bisogna avere più elementi a sostegno delle tesi. Non possiamo neanche confidare sul fatto che il testo preveda di valutare l’impatto della Direttiva sul mercato tra tre anni: è sancito anche nella direttiva 96/9/EC, sulla protezione legale delle basi di dati, e dopo cinque anni dall’entrata in vigore ancora non si parla di avviare una valutazione di impatto. La Commissione teme di verificare che non ha stimolato affatto il mercato?
I brevetti sono monopoli legalizzati. Come tutti i monopoli sono dannosi, ma possono essere tollerati dalla società quando producono effetti positivi tali da compensare quelli negativi. Persino chi si dichiara a favore della brevettabilità del software ammette che ci sono dei problemi legati al fatto che i brevetti software non descrivono sufficientemente l’oggetto di brevetto, sono troppo ampi, durano troppo a lungo . Ciononostante spingono l’Europa ad adottare le ricette statunitensi per il bene dell’Europa.
L’Europa può quindi permettersi di imitare un modello unanimemente riconosciuto come imperfetto? Non è forse il caso invece di ascoltare la voce dei 10 milioni di aziende europee che chiede di non rendere brevettabile il software e dare un indirizzo chiaro all’EPO? Sicuramente gli obiettivi di Lisbona stanno più a cuore agli europei che al resto del mondo.
Stefano Maffulli
Presidente di Free Software Foundation Europe, sezione italiana