Facebook non può essere eretto a monumento della libertà, né a simbolo di verginità, né tanto meno a icona di democrazia. Fin qui siamo tutti d’accordo. Occhio, però: ergerlo a buco nero in cui scaricare tutte le nostre colpe è qualcosa di ben diverso, tentazione in cui converrebbe evitare di cadere. Anche quando il punto di vista è quello prestigioso di Carole Cadwalladr, un nome che molto ha significato a suo tempo per l’emergere del caso Cambridge Analytica che ha aperto il vaso di Pandora nelle mani di Zuckerberg.
Lo speech di Carole Cadwalladr
Per chi se lo fosse perso in questi giorni di pausa legati alla Pasqua: questo è il discorso di Carole Cadwalladr, giornalista di Observer e Guardian, al TED di Vancouver sul rapporto tra il Galles, la Brexit e Facebook. Un discorso toccante e profondo relativo alle cause che hanno portato il Galles a sbilanciarsi a favore del “leave”, ma una tesi che converrebbe analizzare anche sotto altri punti di vista poiché si rischia di passare un po’ troppo facilmente dalle cause alle conseguenze senza averne verificata la correlazione. Siccome le tesi della Cadwalladr hanno già avuto (giustamente) eco, val la pena tentare di metterle in discussione per capire se descrivano in modo compiuto la realtà, o se non sia lecito pensare che la realtà sia più complessa di quella descritta. Cambridge Analytica e mille altre evidenze mettono Facebook con le spalle al muro, ma se l’accusa non è ben direzionata si rischia un processo politico invece che una arringa in grado di inchiodare il social network alle proprie vere responsabilità.
Riassumendo: Cadwalladr spiega un proprio reportage sulla Brexit, raccontando come, parlando con i suoi concittadini del Galles, da più parti abbia appreso che l’opinione pre-referendum sia stata costruita attorno a fatti appresi su Facebook. Veri, falsi o presunti che fossero: l’opinione sulla Brexit sarebbe nata sui news feed dei singoli. Se in questo contesto si innestano anche le numerose irregolarità ed i fortissimi investimenti legati al fronte del “leave”, nonché tutte le mancanze emerse in occasione dello scandalo Cambridge Analytica, ecco che l’omicidio perfetto appare descritto. La vittima la conosciamo: il Regno Unito. Il colpevole lo indica Carole Cadwalladr: Facebook, in qualità di testa di ponte tra gli “dei della Silicon Valley“. Facebook, perché non si è assunto le proprie responsabilità. Facebook, perché non ha risposto alle domande del Parlamento. Facebook, poiché veicolo privilegiato di disinformazione sul tema. Facebook, per mille validi motivi. Facebook, che se non cambia direzione è come se ammettesse di voler stare “dalla parte sbagliata della storia“.
Ma è proprio così? Sebbene Facebook abbia molte ed innegabili colpe di per sé, sul tema della Brexit, delle democrazie in pericolo e delle mille deviazioni della politica odierna è davvero tutta colpa di Facebook? Al netto delle incontrovertibili colpe del social network, non si rischia forse di celare dietro Mark Zuckerberg tutta una serie di fragilità che con Facebook non hanno nulla a che vedere?
Tutta colpa di Facebook? Nope.
Come da introduzione: libertà, verginità e democrazia non sono certo i pilastri del social network di Mark Zuckerberg. E ci aggiungiamo anche la trasparenza, altro aspetto sul quale si latita non poco dalle parti di Menlo Park. Tuttavia concludere che Facebook sia un attentato per la democrazia (si passi l’uso della parola “attentato”, visto che il discorso della Cadwalladr parla più specificatamente di un “pericolo”, ma al tempo stesso tenta di dimostrarne il dolo) è qualcosa che va ben oltre quel che i fatti consentono di desumere.
Si parta da una riflessione elementare: Facebook voleva la Brexit ed ha tentato in qualche modo di favorirla? Nope. Facebook si è lasciato docilmente cavalcare dal fronte del leave, consentendo agli attivisti-arrivisti della Brexit di spremerne fino in fondo le risorse pur di raggiungere lo scopo? Si, sicuramente. Ma questa è una colpa diretta o è semplicemente una superficiale inettitudine? Facebook va additato come causa di ogni male o come strumento periglioso a disposizione di qualsivoglia causa?
Se da una parte appare giusto chiedere a Facebook una maggior responsabilizzazione, in virtù del fatto che ormai è troppo ingombrante per poter ignorare il contesto entro cui si muove – elefante in un negozio di cristalli – per contro non si può attribuire a Facebook qualsiasi colpa per qualsiasi avvenimento che avvenga a cavallo delle opinioni che passano di bacheca in bacheca. Il rischio è altrimenti quello di chiudere il caso senza cercare i veri colpevoli. Il rischio è di far passare alla storia il fatto che il Regno Unito sia fuggito dall’Europa per colpa di un social network che ha deviato l’opinione, semplicemente, peraltro fotografando l’opinione stessa soltanto ex post e dando per scontata la situazione ex ante. Chiunque voglia azzardare questa tesi è autorizzato a farlo, purché lo dimostri. Purché dimostri l’impatto che il passaparola social ha avuto, purché dimostri l’influenza delle campagne che Farage & C. hanno orchestrato, purché i numeri puntellino questi argomenti.
Ma al tempo stesso si dimostri il tutto al netto di un titolo come quello che segue, frontespizio di uno dei tabloid più noti del Regno Unito (The Sun), ove trapela l’opinione della Regina Elisabetta sul tema: “datemi tre buoni motivi per rimanere” – frase che ha sicuramente pesato moltissimo sulla formazione dell’opinione pubblica UK, a prescindere dal fatto che sia mai stata pronunciata o meno ed in quale contesto.
Se l’assunto è che l’opinione si forma sui media, allora si pesino tutte le espressioni che il dibattito “Leave vs Remain” ha assunto in ogni dove, dai social network ai tabloid, passando per le radio e le tv. Altrimenti ogni pesata è parziale.
E se la colpa di Facebook è quella di non aver risposto al Parlamento, al tempo stesso il Parlamento ancora deve rispondere ai suoi elettori dopo mesi di caos attorno alle proposte di Theresa May: è lecito pensare che Facebook debba molte risposte al popolo del Regno Unito ma, se il tema è quello della Brexit, allora il rischio dello scaricabarile sul social network è un tantino accentuato e le domande sarebbe opportuno che fossero poste da altri.
Democrazie fragili
Facebook ha sicuramente messo alla prova le nostre democrazie. Tutte. Lo fa mettendo sotto stress non tanto i principi, quanto le regole e le dinamiche attorno a cui i meccanismi di tali democrazie sono stati pensati e scritti. Basti pensare al silenzio elettorale che dovrebbe accompagnare le ore precedenti al voto, regolarmente ed impunemente violato. Ci si aggiungano le dirette Facebook che sostituiscono i dibattiti televisivi, ma si ragioni anche su quanto puerile possa essere un dibattito tv in cui ci si concentra più sul tempo dei singoli speech che non sui contenuti delle singole tesi. E come prova del nove, si immagini cosa succederebbe se una democrazia mettesse troppi lacci a Facebook, e se si potrebbe ancora definire “democrazia”.
C’è però di più, a dimostrazione del fatto che non Facebook, ma più in generale l’avvento di Internet, stia mettendo sotto stress interi apparati. Le tentazioni della democrazia diretta sono o non sono una deviazione pericolosa? Le facili suggestioni del voto online sono o non sono un pericolo? La politica “dal basso” è o non è un sovvertimento del principio di partecipazione che dovrebbe puntellare l’intero concetto di democrazia rappresentativa? Delle due, l’una: o la democrazia va riscritta, oppure dobbiamo ricostruire le condizioni contestuali entro cui la democrazia può ancora rappresentare il migliore dei sistemi pensati per darci una forma di governo.
La democrazia è da sempre un meccanismo imperfetto (non stiamo qui a rispolverare le note parole di Churchill in proposito), ma le colpe della fragilità dei sistemi attuali vengono ben prima di Facebook e forse della stessa Internet. Del resto questo è il periodo in cui in Ucraina è un comico a diventare Presidente: vogliamo pensare che sia uno “scandalo” figlio dei tempi moderni? Vogliamo pensare che sia colpa dei media che hanno formato un’opinione deviata sulle capacità dello stesso Zelensky attraverso una serie tv? Oppure vogliamo ricordarci che in tempi non sospetti la più grande democrazia del mondo ha eletto come proprio presidente un attore, e che allora quel che accade oggi non è certo una novità? La democrazia deve essere un castello che difende la politica o un insieme di anticorpi che difende dagli agenti dell’anti-politica? Il tema è filosofico prima ancora che tecnico, di principio prima ancora che legislativo.
La realtà è che la democrazia è un meccanismo estremamente fragile e che per questo motivo andrebbe difesa a oltranza. La situazione è troppo complessa per poterla leggere in modo semplicistico con una correlazione biunivoca tra media e sistema politico: per difendere la democrazia ci vorrebbero mezzi di informazione ben regolamentati, ci vorrebbe un Giornalismo in grado di ritrovare il proprio orgoglio, ci vorrebbe un’editoria più solida, ci vorrebbe maggior cultura diffusa e un maggior senso critico nei lettori. Ma ci vorrebbero anche migliori chiavi di lettura della realtà, perché altrimenti diventa troppo semplice pensare che sia tutta colpa di Facebook. Nope.