Davos – Aver contribuito all’erigere la Grande Muraglia Digitale ha danneggiato Google. Un rimpianto, più che un’ammissione di colpa, quello di Sergey Brin, presente al World Economic Forum di Davos insieme a Larry Page, l’altro fondatore del celeberrimo motore di ricerca.
Quello di Davos non sembra l’inizio di un ravvedimento rispetto alla censura operata in collaborazione con il governo cinese, né sembra essere un’esternazione scaturita da un senso di colpa. Infatti, riporta Guardian Unlimited , Brin ha rivelato che ” Sul piano del business , la decisione di censurare è stata nettamente negativa”. E questo perché ha offuscato la reputazione di Google sui mercati europei e statunitensi.
Sul fronte etico, nei riguardi dei netizen cinesi, invece, Google ora sembra non avere nulla da aggiungere: ne aveva parlato lo scorso giugno, quando un contrito Brin si lanciava in un mortificato mea culpa , dichiarando che Google aveva tradito i suoi valori etici e aziendali.
Brin, riporta Forbes , ora ha dichiarato che, essendo nato in Unione Sovietica ed essendo consapevole dell’oppressività dei regimi censori, in un primo momento era contrario a scendere a patti col governo della Repubblica Popolare. Ma poi si è dovuto ricredere, perché i netizen cinesi con cui ha avuto a che fare gli sono apparsi entusiasti. Infatti, ha affermato all’unisono con Page: “Garantire alla Cina l’accesso ad un’informazione filtrata è sempre meglio che negarle totalmente l’accesso all’informazione”. Dichiarazioni che portano avanti la linea tracciata lo scorso anno anche da Andrew McLaughlin, consigliere strategico di Google.
Il Guardian si chiede se l’esternazione dei cofondatori di Google possa rappresentare una premessa ad una virata nella strategia di corporate responsibility del motore di ricerca. Larry Page non sembra di questa idea: se da un lato si dichiara preoccupato in termini di macchie nella reputazione, dall’altro ritiene di non dover attribuire troppo peso alla percezione, nei confronti dell’azienda, da parte delle persone che si accontentano di leggere i titoli ingannevoli dei giornali.
I commenti alla notizia si schierano su fronti opposti. Qualcuno ritiene che Google sia complice del governo nell’occultare informazioni, nel lasciare che i cinesi credano che Tienanmen si limiti ad essere il nome di una piazza. E considera che Google non tornerà sui suoi passi, perseverando in un gelido ragionamento in termini di affari: persistere nel ” be evil “, infatti, farà guadagnare a Google più di quanto farebbe guadagnare un ravvedimento che la facesse tornare ad aderire al suo motto aziendale . Infatti, la popolazione dei netizen cinesi ha raggiunto i 137 milioni, un aumento del 23,4% solo nell’ultimo anno, riporta China Daily , che fa riferimento ad un report del China Internet Network Information Centre . Quello cinese sembra un mercato talmente appetibile da riuscire a controbilanciare ampiamente gli offuscamenti della reputazione su mercati già stabili come quelli occidentali, e i conseguenti scossoni in termini di business.
Qualcuno invece giustifica il disegno di Google: la censura è imputabile al governo cinese, Google non fa che rispettare le leggi locali. Se poi si considera che, nel caso in cui il motore di ricerca avesse rifiutato di accondiscendere alla censura, si sarebbe comunque affermata un’alternativa locale prona alle restrizioni del governo, Google non si deve ritenere afflitto e responsabile.
Ma molti parlano di “incoerenza” dei fondatori del motore di ricerca, che sarà presto messa nuovamente alla prova. Come si concilierà, scrivono in tanti, l’atteggiamento bifronte di BigG con la prossima stesura del codice di condotta che vedrà l’azienda impegnarsi per promuovere la libertà di espressione?
Gaia Bottà