Call of Duty: Black Ops II lo ritrae al termine degli anni 80, il volto segnato, alla vigilia della invasione statunitense di Panama che lo avrebbe deposto dalla sua dittatura. Manuel Noriega non potrà soffocare il proprio doppio videoludico: la libertà di espressione vince sulle pretese di un dittatore che mostra di non sapersi confrontare con la storia e con la proria reputazione.
L’ex-dittatore di Panama aveva denunciato Activision nei mesi scorsi. In una delle missioni del titolo, il gamer, che impersona un agente della CIA, è incaricato di consegnarlo alle autorità statunitensi: Noriega sosteneva che il videogioco riverberasse sulla propria persona l’immagine di “un sequestratore, assassino e nemico dello stato” responsabile di aver commesso “numerose atrocità fittizie”.
Il giudice del tribunale di Los Angeles incaricato di dirimere il caso ha ora deliberato in favore di Activision, ritenendo che il confronto non avesse ragion d’essere: innanzitutto, chiarisce il giudice, il valore del videogioco non deriva dalla presenza di Noriega ma dalla creatività e dalle competenze di Activision. Coloro che si spendono per questo genere di lavoro, che sfocia in un’opera dell’ingegno a tutti gli effetti, godono del diritto alla libertà di espressione , che in questo caso sovrasta senza ombra di dubbio il diritto all’immagine che Noriega ha tentato di rivendicare, al pari di altri personaggi pubblici che si sono riconosciuti in avventure videludiche.
Il diritto alla libera espressione di Activision è inoltre consolidato dal fatto che la raffigurazione di Noriega in Call Of Duty costituisce un’elaborazione della sua immagine reale, con intenti in qualche modo caricaturali e satirici. È evidente dunque che l’archiviazione del caso rappresenta una rassicurazione per tutti coloro che lavorino ad opere che si confrontano con la storia e ripropongano senza troppe distorsioni il passato sotto forma di intrattenimento.
Del resto, Noriega è un personaggio pubblico noto per le proprie gesta. Nella sua denuncia “non è stato in grado di fornire le prove del fatto che il videogioco arrecasse danno alla propria reputazione” si legge nell’opinione del giudice, che non teme di sottolineare che “data la circolazione globale delle notizie riguardo alla sue azioni negli anni 80 e nei primi anni 90, è difficile immaginare che tali prove possano esistere”.
Gaia Bottà