Cambridge Analytica (CA) avrà pure deciso di chiudere i battenti o, più probabilmente, di cambiare nome in Emerdata, ma le azioni compiute in passato e (soprattutto) il modo in cui ha gestito i dati degli utenti minacciano di perseguitare il management ancora per molto tempo a venire .
L’ultimo caso in tal senso è quello animato da David Carroll, professore associato presso la Parsons School of Design di New York che nel gennaio del 2017 ha fatto richiesta a CA di visionare tutti i dati in possesso dell’azienda e a lui riferibili. La vicenda risale insomma a un periodo precedente allo scandalo dell’accesso non autorizzato agli 87 milioni di profili Facebook, ma è sintomatico del modo di fare business di CA.
Nel marzo del 2017, Carroll ha ricevuto una risposta alla sua richiesta da SCL Elections – società affiliata di CA – ma le informazioni fornite non lo hanno soddisfatto né hanno spiegato il modo in cui i dati erano stati ottenuti oppure utilizzati.
Carroll si è poi appellato all’Information Commissioner’s Office ( ICO ) britannico, e a quest’ultima organizzazione CA ha risposto che il cittadino statunitense aveva gli stessi diritti di accesso ai suoi dati di un “talebano nascosto in una caverna nell’angolo più remoto dell’Afghanistan.
Prevedibilmente, il Commissario all’Informazione Elizabeth Denham non ha accolto con favore la risposta di CA, e ha quindi ordinato all’azienda di rispondere tassativamente a tutte le richieste di accesso di Carroll entro 30 giorni oppure di prepararsi a una causa penale.
Per il pubblico è fondamentale, suggerisce Denham, capire come CA operi sui dati personali, soprattutto dopo lo scandalo dei profili Facebook “violati”. Ora CA – o quel che ne resta dopo la chiusura delle attività – potrebbe essere inondata da ulteriori richieste di accesso da parte di cittadini americani e non solo.