Una via di mezzo tra un appello accorato e una lettera di protesta. Un segnale di allarme, o almeno tale dovrebbe suonare , che vorrebbe raggiungere Mark Zuckerberg: Facebook si comporta come l’elefante nel negozio di cristalli , sta schiacciando sotto il suo tacco l’ecosistema degli sviluppatori che vorrebbero crescere e prosperare su quella che (in teoria) sarebbe una piattaforma aperta. Peccato che il management pensi più al fatturato pubblicitario che alla sopravvivenza a lungo termine del social network.
Dalton Caldwell è un nome piuttosto conosciuto in Silicon Valley. Al grande pubblico è noto sopratutto per iMeem , quella che fino a un certo punto sembrò essere la via per lo streaming musicale su Internet: esperienza conclusasi con una vendita dell’ultimo minuto a MySpace (altra meteora del Web), ma che ha reso comunque popolari le doti di Caldwell. Nell’ultimo periodo lo sviluppatore/imprenditore è impegnato in una nuova avventura, App.net : ed è proprio questa la ragione per cui Dalton è entrato in “conflitto” con Facebook.
Ora , circa 2 mesi dopo che i fatti si sono svolti, Caldwell ha preso la tastiera e ha scritto a Mark Zuckerberg . Secondo quanto racconta, era andato a Menlo Park per discutere con degli importanti dirigenti di Facebook dell’imminente lancio pubblico della sua startup, una sorta di servizio sociale per la raccolta, catalogazione e suggerimento delle applicazioni per Facebook e collegate a Facebook: ma, durante la riunione, divenne chiaro che la faccenda era intesa dal social network in modo diverso. App.net collideva con gli interessi del neonato App Center , pertanto Facebook si offriva di acquistare App.net per convogliarne le caratteristiche e capacità nel suo progetto interno.
Caldwell non l’ha presa bene. Rifiutata l’offerta ha chiarito ai presenti che non era quello l’atteggiamento che si aspettava: “Il tuo team – scrive a Zuckerberg – non sembra comprendere la differenza tra essere buoni negoziatori e lasciar intendere che distruggerete il business che qualcuno ha costruito sulla vostra piattaforma aperta “. E poi aggiunge, citando la sua esperienza in iMeem: “Delle tattiche di negoziazione basate sull’intimidazione so qualcosa: le ho affrontate per anni trattando con l’industria musicale”.
Ma c’è di più. Secondo Caldwell il suo non sarebbe un caso isolato, e il problema risiederebbe nella svolta da media company di Facebook : troppo occupata a raccattare pubblicità per preoccuparsi di far prosperare la sua piattaforma. Un approccio, secondo Dalton, comune a parecchie piattaforme: nel suo scritto cita espressamente Twitter, che proprio in questi giorni è al centro di almeno tre vicende che la vedono coinvolta in polemiche simili. Dopo il caso Instagram e quello meno pubblicizzato di StockTwits (quest’ultima soppiantata dai $cashtag ), ora è la volta di Flipboard : il suo CEO Mike McCue ha lasciato il consiglio di amministrazione di Twitter dove siedeva dal 2010, e le voci puntano il dito proprio su una possibile “rotta di collisione” tra gli interessi economici delle due entità.
In altre parole, la questione ruota ancora una volta attorno all’espressione “walled garden”: Facebook, ma anche Twitter, secondo la lettera di Caldwell e secondo alcuni osservatori si starebbero gradualmente ripiegando su sè stesse, abdicando al ruolo di piattaforma su cui costruire servizi e applicazioni e preferendo puntare alla monetizzazione diretta del traffico che sono in grado di generare. Con milioni e milioni di utenti appare senz’altro una prospettiva florida, ma nella lettera di Dalton si scaglia contro la lungimiranza di tale scelta: “La tua azienda, e Twitter, stanno dando prova di voler seminare zizzania con gli utenti e gli sviluppatori, tutto nel nome del profitto pubblicitario. E quando hai imboccato la spirale di chi se la prende con sviluppatori e utenti, non credo ci si possa fermare”.
L’idea di Caldwell, che ha deciso di mettere in pratica rifondando App.net attorno a un nuovo paradigma (e ovviamente in qualcuno potrebbe nascere il dubbio che questa lettera aperta non sia altro che un tentativo di farsi pubblicità), è che Facebook e Twitter saranno soppiantate nel prossimo futuro da nuove piattaforme sociali più snelle e interoperabili : il loro punto di forza sarà “un chiaro e sostenibile modello di business”, che gli garantirà una valutazione economica complessiva inferiore, ma che gli permetterà di prosperare più a lungo. “Le piattaforme vengono giudicate dal valore generato dal loro ecosistema, non dal valore diretto della piattaforma” chiosa Dalton.
Che Caldwell abbia ragione o meno, è un fatto che le grandi piattaforme come Twitter e Facebook stiano effettivamente cullando ambizioni da giardino recintato da qualche tempo. Il giudizio su questa strategia commerciale non è cosi immediato, ma di certo c’è da riflettere sulla questione. Soprattutto perché c’è un terzo grande concorrente in circolazione, Google+, che al momento si barcamena tra le diverse posizioni e non pare aver preso una decisione definitiva su come agire in futuro: una svolta da piattaforma o un approccio da media company?
Qualunque siano le scelte che Google intendere operare per Plus, Vic Gundotra (responsabile del social di BigG) non si è fatto sfuggire l’occasione per approfittare della difficoltà dei concorrenti. Al momento uno dei principali limiti di G+ è la mancanza di un’API per sviluppare applicazioni interessanti per la piattaforma, e Gundotra ha ribadito che le API saranno rilasciate solo quando l’azienda sarà certa di offrire uno strumento affidabile e duraturo agli sviluppatori. In altre parole, Google vorrebbe far passare il seguente messaggio: se Facebook, Twitter e, perché no, anche Apple vi hanno reso infelici , noi non faremo altrettanto . Il tempo dirà se anche queste si riveleranno promesse vane, o se la sirena di Mountain View per una volta condurrà utenti e sviluppatori lontano dagli scogli.
Luca Annunziata